Torna alle mente quella scena magnifica del Gladiatore in cui Massimo Decimo Meridio risparmia la vita al colossale avversario che ha appena abbattuto sull’arena del Colosseo, con il popolo in delirio sugli spalti che ne chiede invece l’uccisione. Ascoltando le uscite pubbliche (ma ne esistono di private?) di Matteo Salvini negli ultimi giorni, i giorni del Papeete, sulla sopravvivenza della legislatura sembra di essere a quel punto lì, col Capitano che ruota lo sguardo sulle moltitudini dei suoi tifosi aspettando il momento giusto per farla finita con il nemico.
Peccato che qui il nemico sia un amico, in teoria. Un partitucolo – i Cinquestelle stanno a un partito politico degno del consesso civile come una bicicletta sta a un aeroplano – che però poco più di un anno fa vinse le elezioni politiche e firmò con Salvini un contratto di governo. Sforzandosi, con impegno sovrumano, di volare alti sull’umiliante filastrocca quotidiana di porcheriole da social nelle quali indulgono purtroppo entrambi gli schieramenti e i loro leader anziché distinguersene, si può riepilogare cos’è realmente accaduto alla politica italiana nel consesso europeo in questi dodici mesi e perché Salvini ha raddoppiato i consensi e Di Maio li ha dimezzati.
Salvini ha scelto la battaglia contro l’immigrazione clandestina e per la sicurezza. Ha ottenuto, complici anche alcune circostanze fortunate tra cui il calo della domanda di immigrazione verso un Paese che appare ormai un po’ sfigato anche a guardarlo dall’Africa Nera, un netto calo dei flussi. Ha avuto la fortuna di non incappare in incidenti emotivamente acuti, come molti morti in naufragio o altro. Ha avuto la superfortuna di dover fronteggiare antagonisti di una pochezza intellettuale e politica assolute, non ultima la capitana tedesca della domenica che nella foga dell’attracco illecito stava schiacciando la motovedetta italiana contro la banchina.
Contemporaneamente, ha incassato il – chiaramente non a suo merito ascrivibile – calo di 70 mila delitti rispetto all’anno prima, in buona parte avvenuti comunque ma non denunciati per l’aggravarsi della sfiducia in una magistratura inesistente (vedasi alla voce Bossi-Belsito) e dunque ha maturato consensi sul suo fronte, l’ordine pubblico. Poi ha accentuato di mese in mese un atteggiamento suppletivo verso Di Maio e Conte con invasioni di campo continue, soprattutto sui temi economici, legittimate dall’essere vicepremier.
In giugno, con quest’atteggiamento, ha di fatto dato l’impressione di essere stato il vero artefice di quella porzione di flessibilità con cui si è concluso il primo round di confronto-scontro tra l’Italia e la Commissione europea uscente. La nuova presidente von der Leyen, alla prima uscita pubblica con Conte, gli ha dato ragione sulla necessità di redistribuire i flussi migratori tra gli Stati membri. E oggi, sulla manovra economica del 2020, Salvini punta dichiaratamente a tenere nella colonna della spesa pubblica molti punti decimali che dividerebbero il programmato 1,8% di deficit dal tetto consueto del 3%. Stiamo parlando di un totale di 20 miliardi di euro circa, che l’Europa ci chiederà di risparmiare, che Tria si atteggia, poveretto, a voler risparmiare, e che Salvini vuole utilizzare e i cittadini italiani pure. Salvo le anime belle che hanno abbastanza soldi in tasca per infischiarsene delle tasse, che spesso tra l’altro non pagano.
È chiaro dunque il contesto delle prossime settimane dal punto di vista di Salvini: si sente il mattatore, ritiene di avere all’attivo un paio di argomenti consensualistici imbattibili, deve solo scegliere il momento per poter finire l’avversario schienato sull’arena riscuotendo un boato di consenso dai suoi spalti.
Il quale avversario non ne ha imbroccata una. I due rispettivi provvedimenti-bandiera sull’economia politica si sono rivelati entrambi inutili per la crescita economica: il reddito di cittadinanza e quota cento potevano tranquillamente restare entrambi sullo scaffale dei tanti annunci vani. Però il flop del reddito di cittadinanza è carambolato contro l’immagine di Di Maio, mentre quota cento ha portato a Salvini meno consensi del previsto, ma ne ha portati. Sulla Tav la sfilza di figuracce dei Cinquestelle è da manuale. E la spaccatura tra le due anime del Movimento non potrebbe essere più profonda.
Ma Salvini il pollice in basso non lo gira ancora. Minaccia, adombra, detta ultimatum. Perché non sa ancora se gli spalti sono maturi al modo giusto nella loro spasmodica attesa di sangue grillino e soprattutto non sa se il guardiano del Pretorio, il presidente della Repubblica, sarebbe poi così solerte nell’indire le elezioni anticipate e non promuovere invece un Governo di responsabili, non così difficile da costruire vista la fame di poltrona e di stipendio di un Parlamento composto per due terzi da esordienti ai quali… quando ricapiterà?
Le ragioni del Colle per una possibile scelta difensiva di questo genere sono evidenti: al primo stormir di deficit, la Repubblica italiana – macchina economica ancora miracolosamente produttiva ma indecifrabile agli occhi degli analisti internazionali – tornerebbe a essere carne da macello della speculazione internazionale, soprattutto para-americana, pronta come nel 2011 a utilizzare il nostro abnorme debito pubblico quale pretesto per attaccare i Btp e tramite essi tutto l’euro.
Il fatto che Salvini ben conosce è che sul bilancio pubblico italiano non è impossibile trovare i 40 miliardi che gli servono per fare lo shock fiscale, evitare l’aumento dell’Iva (chissà poi perché, non è detto che fatto a dovere sarebbe un così gran guaio) e mantenere almeno una parte delle promesse fatte; il difficile è far digerire alla Commissione europea lo sforamento, e senza il sì di Bruxelles i mercati attaccano, lo spread risale e a Roma torna verosimile qualunque mossa di “salute pubblica” per la quale i sostegni lobbistici internazionali, desiderosi di un’Italia devotamente genuflessa ai loro interessi, non mancherebbero.
Con buona pace dei consensi sugli spalti, il Gladiatore Matteo sa che dare la morte al malcilento socio di governo e non passare subito all’incasso elettorale sarebbe un clamoroso autogol, tanto più a nove mesi da una tornata di nomine pubbliche – dall’Eni all’Enel a tante altre – che garantiranno potere amicale per il successivo triennio a chiunque le firmerà.
Dunque, al di là delle illusioni ottiche, Salvini sa di non aver sotto il polpastrello il bottone rosso del voto anticipato, come aveva il joystick del giradischi al Papeete. Il se e il quando dipende da Mattarella, che guarda com’è doveroso agli interessi nazionali rispetto ai mercati e al contesto internazionale. Quindi prima di buttarsi, Salvini vuole sentirsi attorno il popolo. Che è poi la cifra dei leader populisti: sinonimo, però, di democrazia. In fondo la parola “demos” è un modo colto per dire “popolo”. E dunque la democrazia che in altri tempi e in altri luoghi ha eletto al vertice i dittatori, la democrazia che sta infliggendo inopinate sconfitte al sultano Erdogan come già fece con Chávez, la democrazia che ne sa più dei politologi e perfino degli spin-doctor da social media, è una bestia strana, che nessuno sa come cavalcare fino al traguardo. C’è solo da sperare che i suoi istinti, a questo giro, siano buoni.