Usa e Meeting: vita nuova o violenza

Le sparatorie avvenute recentemente negli Stati Uniti sono solo gli ultimi fatti di una scia di sangue che ha ragioni profonde da comprendere

«Non sono motivato a fare nulla oltre a sopravvivere», così scriveva su Linkedin, social utilizzato per cercare lavoro, l’autore della strage di El Paso, Texas, del 3 agosto scorso, in cui sono morte 22 persone e rimaste ferite altre 24. Patrick Crusius, il killer, diceva qualcosa in più, con questa frase, oltre all’odio anti-immigrazione ispanica che pare aver motivato il suo folle gesto. Qualcosa che verrà passato al vaglio di chi sta indagando, insieme a ogni dettaglio della sua vita, per cercare di comprendere, di attribuire le diverse responsabilità, forse illudersi di poter prevenire d’ora in poi gesti del genere.



Ma intanto si piangono le vittime, quelle di El Paso e poi quelle di Dayton, nell’Ohio, dove, poche ore dopo, un altro giovane ha ucciso nove persone, tra cui la sorella, per ragioni ancora inspiegabili. Sono vittime di attacchi armati che seguono, a loro volta, un altro eccidio, avvenuto a fine luglio in una fiera in California, dove sono rimaste uccise tre persone e si sono contati dodici feriti.



In definitiva, in meno di una settimana, il tragico bilancio è di trenta morti e decine di feriti tra persone innocenti colpite all’improvviso durante momenti normali di vita quotidiana. Solo in questa prima parte del 2019, le sparatorie di massa negli Stati Uniti sono state 251, con 136 morti. Le polemiche impazzano sui media di gran parte del mondo. A partire da quelle sulla responsabilità di Donald Trump, la cui retorica contro gli immigrati, secondo alcuni, legittima l’odio razzista, perché, se è vero che non si uccideva di meno sotto l’amministrazione di Barack Obama, è anche vero che le stragi per odio raziale ed etnico stanno aumentando. E così Trump è stato pesantemente fischiato da alcuni cittadini quando si è recato nelle città che sono state scenario dei due ultimi fatti di sangue.



La polemica si collega anche al tema annoso del possesso di armi. Negli Usa ci sono 120 pistole per ogni cento abitanti! Come fai a far comprendere agli americani che una società più armata è più violenta? Solo il 50 per cento degli statunitensi vorrebbe che le armi d’assalto fossero messe al bando, anche se il 77 per cento ritiene che i controlli sulla salute mentale dei proprietari dovrebbero essere più severi. E mentre i giornali si riempiono di pagine sulle sparatorie contro gruppi di cittadini inermi, si rischia di dimenticare la strage quotidiana causata dalle armi da fuoco nelle strade, tra bande rivali, negli omicidi domestici. Il numero di crimini in America non è superiore a quello di altri paesi, ma è nettamente superiore il numero delle vittime causate dalle armi da fuoco.

Tutte queste considerazioni non possono però far dimenticare una questione cruciale: il particolare contesto sociale ed economico in cui si collocano questi fatti di sangue. Dopo la crisi finanziaria, la disuguaglianza tra classi sociali si è acuita sempre di più. La ripresa economica ha riguardato e riguarda gli utili delle grandi compagnie, finanziarie e non, mentre i salari e le condizioni di lavoro peggiorano. Le giovani famiglie non riescono più a stare nelle grandi città. Soprattutto, il sogno americano che sembrava giustificare condizioni così diverse, con la speranza o illusione di poter diventare più ricchi, sembra precluso a sempre più persone. Chi è povero ed emarginato non ha più possibilità di emergere. I giovani ne sono le vittime più consapevoli.

In questa situazione, in cui non c’è un welfare universale e il diritto alla salute è per molti ancora un’utopia, alle difficoltà economiche si è aggiunto un ulteriore elemento, l’isolamento. Chi è svantaggiato è sempre più solo. Si stanno disgregando i legami familiari, sociali, ideali, che in molti altri posti del mondo, aiutano ad andare avanti. Chi è solo è sempre più solo e non ha neanche quella che in Europa è una possibilità di far fluire la protesta: il partito, il sindacato, l’associazione, il movimento. Nessuno può condividere la rabbia, la solitudine, la solidarietà, la compassione, il semplice ascoltare. Tutto questo ha un suo focus: il venir meno di esperienze religiose che in una terra sempre violenta avevano motivato e dato uno scopo anche nelle condizioni più al limite. Sembra impossibile che canzoni piene di speranze, come gli spiritual, siano stati composti da schiavi nelle peggiori condizioni di vita.

E dove si può trovare oggi una madre Cabrini tra i tanti disperati che vivono ai margini della società? L’uomo solo, senza speranza, senza fede, senza amici, può trovare nella violenza verso qualcuno che non conosce il modo per sfogare la sua rabbia. L’arma sembra l’ultimo modo per dire di esistere. Come documenta una bella mostra che sarà inaugurata al Meeting di Rimini sulla crisi dell’”esperimento americano” (“Bolle, pionieri e la ragazza di Hong Kong”), siamo di fronte a una crisi di identità, non solo americana. Queste parole dello scrittore James Baldwin danno una chiave di lettura della violenza a cui abbiamo assistito in questi giorni: “In una tale crisi, sotto una tale pressione, diventa assolutamente indispensabile scoprire, o inventare – le due parole, qui, sono sinonimi – lo straniero, il barbaro, che è responsabile della nostra confusione e del nostro dolore”.

E allora? Un mio amico newyorkese mi ha aiutato a capire come guardare la situazione. Mi ha detto: basta con le analisi, bisogna ricominciare a dire il punto positivo da cui ogni giorno ricominciamo, quello che spesso ci fa anche abbracciare questi uomini soli e disperati, quello che ci fa intuire che gli ideali abbandonati non sono morti e che la religione non è l’oppio dei popoli. Ideali e fedi che non generano ambienti chiusi e autoreferenziali, che non credono di stare in piedi in virtù di valori, anche condivisibili, ma privi di vita. Occorrono comunità in cui persone di diversa estrazione, origine e religione tornino a vivere insieme.

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