Come ha delineato Lorenza Violini ieri su queste pagine, lo sviluppo della crisi di governo può indirizzarsi in più direzioni: tutte connotate da specifici mix di procedure costituzionali e passaggi più squisitamente politici. E lo stesso esito probabile – lo scioglimento delle Camere e il voto anticipato – è forse più interessante per gli aggiustamenti immediati che per l’avvio di una campagna elettorale pur certamente destinata a cambiare volto all’Italia politica.
Già durante la giornata di giovedì – conclusasi con gli interventi serali del premier Giuseppe Conte e del vicepremier Matteo Salvini – è emersa la tendenziale non contrarietà della presidenza della Repubblica all’ipotesi di voto anticipato apertamente sollecitata dal leader leghista. Anche al presidente Sergio Mattarella sembra dunque evidente che il Governo giallo-verde ha esaurito la sua stagione e che – soprattutto dopo il voto europeo di maggio – la ricerca di un’alternativa in un Parlamento italiano non più rappresentativo non è praticabile (benché non manchino suggestioni di una maggioranza M5s-Pd-Fi-+Europa-Leu).
Poche chance sembra avere anche un Governo tecnico-istituzionale: nel 2019 la vera riforma di cui ha disperato bisogno il sistema-Paese si chiama ripresa e nessun esecutivo non politico sembra in grado di muovere le leve macro di politica economica, anche al nuovo tavolo Ue e soprattutto in alternativa alla Lega, collettore elettorale dei ceti produttivi concentrati nel Nord del Paese. Non da ultimo: il nome di Mario Draghi è inutilizzabile in questa fase (e chi sa mai se lo sarà prima del rinnovo della presidenza della Repubblica, nel 2022; l’ex presidente della Bce, che ha declinato le sollecitazioni ad assumere la direzione generale del Fmi, viene invece sempre più accreditato di una prestigiosa presidenza bancaria di livello globale).
Un governo, tuttavia, il Paese deve averlo e su questa preoccupazione nessuna obiezione può essere sollevata verso il Quirinale. Difficilmente potrà esserlo il Governo in carica, la cui maggioranza si è lacerata in Parlamento. E non molte possibilità sembra avere lo stesso premier Conte, nonostante l’apparente mutazione degli ultimi mesi verso la figura di presidente di garanzia, verso il Quirinale e verso la Ue. È a questo bivio – quello di formare un esecutivo di “garanzia elettorale” (questa l’espressione concordante usata dai quirinalisti nelle ultime ore) – che ha ripreso quota l’ipotesi di un incarico a Carlo Cottarelli: che già aveva varcato il portone del Quirinale nel maggio 2018, quando la nascita della “strana maggioranza” fra Lega e M5s era incagliata.
Un governo Cottarelli – chiaramente tecnico e formalmente a termine – sarebbe tuttavia qualcosa di più di un governo balneare”: comincerebbe a preparare la manovra 2020, probabilmente ne stenderebbe una prima versione a ridosso del voto. Certamente approverebbe quella definitiva se i tempi e i modi del post-voto impedissero la formazione di un nuovo esecutivo. Ma c’è potenzialmente dell’altro, anzitutto: non sarebbe più Salvini a gestire dal Viminale il blocco ai flussi migratori e sarebbe certamente interessante vedere all’opera su questo versante un “Governo del Presidente” dopo la “promulgazione condizionata” del decreto sicurezza-bis. Senza trascurare altre situazioni, solo apparentemente marginali. Ad esempio: la commissione parlamentare d’inchiesta bis sulla crisi bancaria non inizierebbe i lavori, mentre proprio nei mesi autunnali è attesa un’accelerazione del riassetto bancario di respiro europeo.
Il “contratto di governo” stipulato un anno fa tra Lega e M5s sembra comunque pronto a lasciare il posto a uno nuovo: fra il leader leghista e il Quirinale. Da un lato Salvini vuole giocare la sua scommessa elettorale: “contro tutti”, ha detto, benché sia forte l’impressione che nei fatti sia “contro nessuno” (con tutti i rischi del caso per lo stesso scommettitore). Sull’altro lato, il Quirinale si ritrova nel ruolo di “banco”: e giustamente ne pretende tutte le prerogative (il “gioco” del governo del Paese non si potrebbe certo interrompere se Salvini perdesse la sua scommessa). Il contratto non è ancora firmato, ma appare equo. Salvini vuol correre per una vittoria “pigliatutto”, ma deve ottenere una vittoria elettorale netta. Per ora il Quirinale vuol custodire tutte le chiavi del governo del Paese: e sarà Mattarella e solo lui a sorvegliare una “amministrazione” mai ordinaria e a decidere dopo il voto quando, come e a chi riaffidarle.
Per accantonare questo contratto occorrerebbe che altri scommettitori si sedessero al tavolo. Ma nell’ultima settimana, tutti sono invece sembrati alzarsene: impauriti dalle perdite già subite (M5s), svogliati e impreparati (Pd) o usurati da troppo gioco (FI). Per questo Salvini ha scommesso raddoppiando la posta. E Mattarella – diversamente da Giorgio Napolitano nel 2011 – non può e non vuole trasformarsi in giocatore.