Sarà certamente uno dei momenti più intensi di questo Meeting 2019 e uno di quelli dove il titolo “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi” trova una sintonia affascinante tra il suo significato e l’esperienza in atto. “Aleppo: un nome e un futuro” (giovedì 22 agosto, ore 15, Auditorium Intesa Sanpaolo B3) vede la partecipazione di uomini che hanno vissuto fino in fondo il dramma della guerra in Siria, in quella che – a ragione – qualcuno ha definito “città martire”. Sono presenti il vicario apostolico di Aleppo, George Abou Khazen; Binan Kayyali, direttrice del Franciscan Care Center di Aleppo; Firas Lutfi, responsabile del Terra Sancta College e del Franciscan Care Center di Aleppo; Mahmoud Akkam, Gran Muftì di Aleppo (che interverrà in video-collegamento). Dunque, cristiani e musulmani insieme. Ne abbiamo parlato con padre Firas Lutfi, presente al Meeting per la seconda volta.
Che significato assume per un cristiano che ha vissuto per anni il dramma della guerra il titolo di questo Meeting?
È in grande sintonia con l’esperienza drammatica che abbiamo vissuto. Quest’anno si celebrano gli 800 anni dall’incontro tra San Francesco e il sultano Malik al Kamil, che segna l’inizio del dialogo tra cristiani e musulmani. È su quell’incontro che noi continuiamo a fissare lo sguardo, perché quel dialogo non si è mai perso in Siria.
Nonostante la guerra?
È proprio la guerra che ci ha dimostrato che potevamo rimanere nell’ottica di quello che fece Francesco. Il rapporto tra cristiani e musulmani in questi anni si è rinsaldato, perché la sofferenza ci ha uniti, ci ha fatto ricordare che siamo uomini e donne che subiscono la stessa violenza. Quindi ci ha aperto all’incontro, alla solidarietà, al supporto uno dell’altro per mezzo della carità.
“Aleppo: un nome e un futuro”: cosa richiama oggi il nome di Aleppo?
“Un nome e un futuro” è uno dei progetti che abbiamo lanciato durante la guerra, quando ci siamo accorti che molti bambini soffrivano il trauma e il terrore della guerra stessa. A conflitto finito ci siamo poi accorti che nella zona periferica della città, quella dominata dai jihadisti, erano nati tanti bambini, che ovviamente non erano mai stati registrati come cittadini siriani.
Persone inesistenti, è così?
Per la società, per lo Stato siriano non esistono. Il progetto di dare loro un nome è proprio motivato da questo: dare loro un nome significa che potranno essere registrati come cittadini e avere così un futuro. Molti di loro erano abbandonati a se stessi, e sono davvero tanti. Avere un nome vuol dire poter contare su un aiuto psicologico e anche educativo: quasi tutti, infatti, non hanno frequentato mai una scuola. Il progetto mira anche ad aiutare le mamme che sono sole, visto che i loro mariti erano guerriglieri quasi tutti uccisi o imprigionati, in modo da dare loro la possibilità di vivere una vita dignitosa.
Essendo figli di jihadisti, questi bambini sono tutti musulmani?
Sì, questo progetto è dedicato ai bambini musulmani, ma come cristiani noi siamo al servizio di tutti, non importa la religione. Abbiamo però diversi altri progetti anche per i bambini cristiani. Organizziamo un corso di arte terapeutica per aiutarli a superare il trauma della guerra, che si tiene proprio nel convento dei francescani di cui sono il padre superiore.
(Paolo Vites)