Secondo il dizionario Treccani, “invalso” è il giudizio così diffuso da diventare pregiudizio e rimasticato. Se è vero che “nomen omen”, i testi Invalsi somministrati in primavera dal Miur per saggiare la preparazione degli studenti in fasi qualificanti del loro percorso di formazione corrispondono all’etimo: affrescare un dato che si fa routine.
Il quadro è globalmente desolante. Mediamente uno studente su tre non capisce un testo in lingua italiana: conosce le parole, ma non le sa raccordare in un significato; non arriva a capire quel testo di cosa parli, che cosa voglia dire, dove voglia andare a parare. I test Invalsi mirano a ricostruire il quadro delle competenze di base in un paniere minimo di cognizioni: italiano, inglese, matematica. Il loro impatto è reso più significativo dalla progressiva espansione che riguarda i frequentanti di tutti i corsi della scuola italiana. E ne emerge un dato chiaro: la scuola è un elefante malato. I docenti, certo, avranno le loro (e magari) grandi responsabilità, ma è saltato completamente il formante precostituito che rende le menti più agili a capire le nozioni: la famiglia, i luoghi di socializzazione, persino gli spazi pubblici occasionali, sono sempre più chiusi e sempre più sospettosi; meno ricchi di spunti e di alternative, eppure sempre più pressanti. Un problema giuridico che rischia di diventare un problema psicologico. Su questo corno della questione, c’è comprensibilmente poca voglia di riflettere: chi ridiscute se stesso per dire che ha sbagliato? Per dire che ha consegnato a un “sottoposto” (un minore, un discente, un associato) un codice obbligante inidoneo a dargli mezzi di resistenza, esperienza e sopravvivenza?
Il Sud, dicevamo. Un giovane calabrese su quattro in seconda elementare non sa comprendere un testo narrativo breve in italiano. Un giovane sardo su tre in quinta elementare non afferra il senso di un testo inglese ancor più didascalico ed elementare. In terza media la Calabria completa il suo disastro: sei giovani su dieci non riescono ad approcciare un problema matematico di entità semplicistica. Alla fine del ciclo di studi quattro italiani su dieci hanno problemi di apprendimento basici. Due su tre, o quasi, nelle Regioni meridionali.
È sconfortante pensare il Sud atavicamente arretrato. Non è così. Bisognerebbe innanzitutto dire che anche il dato aggregato trasuda mediocrità, disinvestimento nella formazione, voglia di trasformare la scuola da luogo di apprendimento a mero step di una carriera di subordinazione verso posti di lavoro dequalificati (non è demerito di questo governo, è una parabola che incrocia il malgoverno occidentale da circa un trentennio). Bisognerebbe anche aggiungere che i test ministeriali, così ansiosi di fotografare una medietà imparziale, in realtà non sono sempre corrispondenti alle cognizioni effettivamente apprese da ragazze e ragazzi in età scolare.
Ancora: l’istruzione in Italia sta diventando un fatto di classe, che è l’esatta negazione del principio liberale popperiano della società aperta. In altre parole, anche a parità di titolo, il discente proveniente da una famiglia delle professioni – anche loro in grave sofferenza – sa un po’ più e sa fare meglio di chi proviene da una famiglia sottoposta a condizioni socio-reddituali significativamente peggiori.
Certo: il Sud ha le sue colpe. Diffidando dello Stato, è mal cresciuto convinto che dallo Stato si dovessero almeno prendere le risorse, i sussidi, gli interventi di spesa pubblica. Tema in principio non scorretto, viste le condizioni di partenza e gli obblighi perequativi dello Stato sociale, ma disastroso in una società meridionale dove il ceto politico è drenante di consensi, poteri e spartizioni. Ciò si innesta in una realtà culturale italiana sin troppo cristallizzata dove fuoriuscire dal canone è stato sempre ritenuto nono solo un demerito, ma una zavorra: l’inglese fluente è un corredo rispetto a un rapporto ossequioso con l’interfaccia locale dell’amministrazione, le skills matematiche (particolarmente liberanti, soprattutto per chi adora le arti e la poesia) sono trattate a mo’ di appendice rispetto al modello umanista gentiliano, il quale peraltro aveva una solidità di nozioni che la società ha completamente distrutto trasformandola in un nozionismo al più spendibile ai quiz televisivi.
Il Sud non è per forza messo peggio del Nord: i discenti dell’una e dell’altra parte del Paese possono sviluppare potenzialità comuni. I secondi sono del resto mediamente più ricchi, incardinati in contesti mediamente più dinamici, dove la diffusione della cultura, quando rileva come capitolo economico, è meglio incoraggiata.
Non siamo senz’altro in pasto a un nuovo regno borbonico: basterebbe che gli istituti scolastici fossero messi in grado di irradiare sapere, senza sperpero ma con uso non per forza parsimonioso e stitico di denaro pubblico. L’illuminismo milanese precapitalista fu più proficuo di quello napoletano, che pure era assai più erudito, anche se modificò meno incisivamente la società alla quale si raccontava. Il Sud deve riprendere potere per se stesso, e oggi questo tema ha una sola possibile declinazione: formare esso stesso classe dirigente, non esecutori di mandati fiduciari da chi detiene i cordoni della borsa. Una classe dirigente libera, certo, dovrebbe studiare un po’ di più. E in condizioni più competitive.