Di fronte ad un’opera letteraria, in particolar modo di fronte ad un romanzo, siamo spesso alla ricerca del sublime. Che ad avventurarsi in questi oceani di parole sia un lettore esperto o un cacciatore di storie alle prime armi, ci aspettiamo sempre una certa epicità dai personaggi con cui dialoghiamo, una sconvolgente tempesta emotiva provocata dalla loro grandezza, dalla loro esemplarità. Forse perché il nostro immaginario occidentale, nutrito da secoli di miti classici e di eroi stoici nella sofferenza, brama inconsciamente questo genere di narrativa. Ma cosa pensare quando i personaggi che ci aprono il loro cuore sono una portinaia di 54 anni, schiva e sciatta nel suo semplice e quasi insulso andare, e una dodicenne appartenente ad una famiglia altolocata, la cui unica preoccupazione sembrano i frivoli capricci della sorella o gli impegni asfissianti dei genitori?
Beh, di fronte ad una storia del genere, potremmo vederci costretti a mutare i nostri propositi, gli obiettivi della nostra ricerca. Forse: perché quando Renée, la portinaia, si rivela essere una donna dalla cultura senza pari, appassionata d’arte, di musica e di cultura giapponese, la nostra impressione di un sublime latitante comincia a vacillare. Crollando definitivamente quando apprendiamo che Paloma, la bambina che vorrebbe mettere in riga la sorella, è in realtà un enfant prodige che si esprime attraverso complessi ragionamenti filosofici e che intende suicidarsi dando fuoco alla propria abitazione nel giorno del suo prossimo compleanno. È da queste premesse che comincia l’inusuale ed affascinante vicenda de L’eleganza del riccio, romanzo del 2006 di Muriel Barbery che, nel giro di appena qualche anno, è diventato un vero e proprio caso letterario da milioni di copie in tutto il mondo.
Perché il sublime, queste creazioni fantasmatiche di un’autrice che sa scavare il “non detto” del cuore umano con impareggiabile maestria, lo sanno raggiungere a modo loro. Non sono guerrieri dalla tempra irriducibile come l’Achille omerico, non sono viaggiatori instancabili spinti da un proposito divino ed etico come l’Enea virgiliano, né tantomeno fieri e furiosi peccatori come l’Edipo sofocleo o la Medea di Euripide. I personaggi di Barbery, a tratti goffi ed ingenui nei loro gesti, sono invece portatori di una bellezza nascosta, quasi impercettibile agli altri, simboli di quel miracolo che va oltre le apparenze e gli stereotipi.
Ci può essere, dietro la discrezione di una portinaia che fa fatica a guardare negli occhi gli inquilini dell’elegante palazzo parigino in cui lavora, la sofferenza di una solitudine che negli anni, perso il marito, ha oscurato ogni lume dello spirito; dietro la difficoltà di intrattenere una relazione di amicizia l’insoddisfazione di non riuscire a trovare qualcuno che sia degno di condividere la sua altezza di sentimento. Così come dietro l’amarezza di una fanciulla soffocata dal rispetto delle etichette familiari può esserci la tristezza per un mondo che sa consumarsi crudelmente da solo senza rendersene conto.
Renée e Paloma, pur nella loro diversità, sono l’espressione di una stessa esigenza, di uno stesso travaglio che le porta a fraternizzare, specie dopo l’arrivo di Kakuro Ozu, inquilino giapponese capace di fare subito breccia nel cuore di entrambe. Sembra dotato, Kakuro, di una vista speciale, di un rilevatore di sensibilità infallibile che stravolgerà le vite di questo curioso terzetto: Renée, che per anni, per paura di essere dileggiata o non capita, ha celato dentro sé l’universo sconfinato delle sue passioni, ritroverà in Kakuro la chiave per aprire quello scrigno incantato, le fattezze di quell’amore che non credeva più di meritare; Paloma, rinunciando ai propositi suicidi, imparerà a lottare per ottenere il cambiamento che vuole, trovando uno scopo alla sua giovane e nuovamente valevole vita; e Kakuro avrà la conferma di ciò che ha sempre pensato: i fiori autentici sono quelli che sbocciano dalle crisi e che si mostrano solo al momento giusto. E non a tutti.
Non importa che il finale del libro – su cui indugiare più del dovuto sembra inopportuno per ogni potenziale futuro lettore – porti con sé un avvenimento drammatico: l’inaspettato non sconfessa l’accurata costruzione che l’autrice vuole trasmetterci. Il romanzo della Barbery è la riaffermazione di un concetto che la frenesia contemporanea ha sottratto alla nostra considerazione, di una necessità che qualcuno, con insistenza, prova a far passare per una sciagura: l’incontro.
Che non è consegnare le proprie fragilità alla mercé di chi ci sfiora di passaggio, ma aspettare chi ha voglia di rimanere, di esplorare i cunicoli delle nostre incertezze, di sacrificare una parte di sé pur di avere un “tu” a cui consegnarla. La dinamica più umana che esista, a ben pensarci: oltre la nostra individualità, e senza che questa venga in alcun modo smarrita, siamo un reticolo in cerca di connessione, particelle che aspettano un’aggregazione, vuoti reciproci che aspirano ad essere riempiti. Non siamo se non con gli altri, se non immergendoci nei loro sogni e nei loro desideri, attendendo con fiducia che qualcuno faccia altrettanto per noi. Siamo continuamente altri per qualcuno, specchi che si riflettono illuminando i loro riflessi.
Non è importante quanto questa presenza rivelatrice si farà attendere nel suo mostrarsi: a volte saranno anni, come per Renée e Kakuro, altre volte sarà un’esperienza fulminante come per Paloma. Ciò che conta è che, a prescindere dal numero di persone che non sentiremo affini, a prescindere da tutte le volte che ci sentiremo distanti da chi non ha avuto la pazienza di capirci, qualcuno è già pronto a prendere per mano ciò che di più prezioso nascondiamo. Un’eredità fin troppo cruciale per essere dispersa. Il sublime, perciò, può prendere forma anche nella voce tremolante di una portinaia tutt’altro che alla moda. Il sublime sta dove il lettore coincide col personaggio, dove un’opera, che parla di qualcuno che ci appare estraneo, parla in realtà di tutti noi. E dove siamo noi, c’è anche l’altro.