C’era una volta il partito americano, anzi amerikano, rigorosamente con la k, e c’era una volta il suo leader Francesco Cossiga, anzi Kossiga, rigorosamente con la k, come scrivevano sui muri i militanti dell’autonomia studentesca al tempo del caso Moro.
L’Italia, si sa, è una stella supplementare della bandiera americana, colonia felice e gratificata da piani Marshall e privilegi finanziari infiniti. E la classe politica spesso è stata selezionata in base al gradimento dell’alleato americano, dante causa dichiarato degli equilibri economici e finanziari del Paese.
In apparenza il partito americano è finito col tramonto di Gladio, l’intelligence semi-ufficiale cara a Cossiga, e con la fine della Guerra fredda. In realtà sono solo cambiate le regole di ingaggio e le modalità con cui gli Stati Uniti intervengono nella politica italiana. Intanto l’America non è l’amministrazione di Washington ma quella serie di poteri che riassumono la forza degli States nel mondo, anzitutto la temutissima e spesso enfatizzata Cia.
In quest’ultima fase della politica italiana questi temi tornano attuali. Qualche settimana fa Matteo Salvini si è recato negli States. La sua doveva essere una missione politica, farsi conoscere e dunque legittimarsi; la narrazione salviniana accostava il viaggio di Matteo al celebrato viaggio di De Gasperi in America, al ritorno dal quale congedò Togliatti e il governo del Cln e diede il via all’egemonia democristiana.
A Matteo è andata diversamente. Gli americani gli hanno chiesto conto di Huawei e delle autostrade informatiche, della garanzia sul possesso dei dati e delle conseguenze sui rapporti commerciali tra i rispettivi paesi. Matteo ha provato a rispondere con frasi approssimative, generici impegni, frasi fatte da sagra della salamella a Cazzago Brabbia.
Agli americani non è bastato: l’hanno salutato lasciandolo felice di aver scansato la prova, ma poi è venuto giù il mondo: dalla Russia sono arrivati gli audio di Savoini, un paio di procure inseguono i computer di Siri, avvertimenti a go go hanno persuaso Salvini di essere il nuovo cinghialone della politica italiana.
E se ci fossero dubbi su questa analisi, basterebbe osservare le mosse degli esponenti più noti del partito americano, quelli – per intenderci legati a filo doppio con la Cia e l’amministrazione statunitense. Iniziamo da Mattarella, massimo fiduciario americano in quanto ministro della Difesa al tempo degli ultimi interventi bellici significativi per gli americani. Da Mattarella non è venuto un no a elezioni anticipate, ma una serie di criticità in fondo alle quali ci sta un rinvio sine die del voto popolare.
Poi sono intervenuti tutti i corifei, protagonisti più o meno rilevanti dell’influenza americana nella politica italiana.
Infine ci sono i comunicatori: giornalisti alla Sallusti o Belpietro o Mieli e Folli, diversi l’uni dall’altro ma uniti nel riferimento alla bandiera a stelle e strisce.
E se rimanessero dubbi, basterebbe osservare un altro esponente di primo piano del partito amerikano, l’ex ministro Gianfranco Rotondi, sempreverde Dc e titolare legale dello scudo crociato. Da quieto commensale delle cene eleganti di Berlusconi, silente e disciplinato comunicatore dell’inner circle berlusconiano, improvvisamente Rotondi si è trasformato nel principale accusatore delle politiche salviniane.
A che si deve la metamorfosi? Ah saperlo, scriverebbe Dagospia nelle sue cronache.