In questi giorni qualche quotidiano e la rete hanno dato evidenza all’annuncio, fatto il 26 luglio dalla Bce, la quale ne è firmataria insieme ad altre 21 autorità monetarie (tra le quali la Banca d’Italia), che il Central Bank Gold Agreement non sarà rinnovato e, pertanto, da fine settembre di quest’anno perderà vigore. Del Cbga si sa ben poco, le sue apparizioni nella cronaca politica sono rare e poco comprensibili al pubblico, se si eccettua una ristretta cerchia di specialisti.
A dispetto della sua posizione di nicchia, si tratta tuttavia di un atto politicamente molto rilevante, ove solo si consideri che, sull’espresso presupposto che l’oro continui a essere un importante elemento delle riserve monetarie globali, disciplina modalità e limiti di vendita del metallo prezioso da parte delle banche centrali. La stessa stipulazione di un simile accordo, che non è un trattato internazionale, bensì una sorta di convenzione di cartello tra i vertici della politica monetaria, sottratto – certamente per quanto riguarda l’Italia – alle regole del diritto pubblico e a ogni effettivo controllo da parte degli organi rappresentativi, meriterebbe specifica attenzione.
A stretta regola, basterebbe evocare l’art. 80 Cost., che impone la vigilanza parlamentare su tutti gli atti che instaurino rapporti di natura politica con soggetti esteri e richiede dunque che essi siano adottati nella forma dei trattati internazionali. Di qui almeno due profili problematici, tra loro del resto strettamente connessi: per un verso e in primo luogo, quello della posizione costituzionale della banca centrale, tema fortemente discusso già ben prima dell’instaurazione del Sistema europeo delle banche centrali, per la difficoltà (e la conseguente opinabilità) di stabilirne la relazione con gli organi costituzionali sulla base di una norma costituzionale in proposito poco perspicua (art. 47).
La questione è resa oggi ancor più complessa, a causa delle regole europee in materia di Sebc, nonché del loro diverso impatto sui singoli Paesi europei in dipendenza della diversità delle loro scelte di adattamento a tali regole (basti comparare il nostro “laconico” art. 47 Cost. con l’art. 88 del Grundgesetz tedesco).
Ma il quadro è ulteriormente complicato dal fatto che, volendo accedere alla suggestiva ricostruzione secondo cui la banca centrale è titolare di un potere di indirizzo politico che si pone a un chiasma tra il circuito elettorale, quello degli interessi e quello mediatico, mantenendosene indipendente, si devono comunque fare i conti con la profonda trasformazione alla quale è stata sottoposta la nostra forma di governo a seguito della riforma “silenziosa” del 2012 che, modificando gli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost., ha consolidato l’acquis comunitario – recepito sino a quel momento sempre dal legislatore ordinario – attribuendo direttamente agli organi e alle procedure di tempo in tempo vigenti in sede Ue la competenza ad assumere le decisioni fondamentali non solo della politica di bilancio, esigendo che tutte le Pubbliche amministrazioni garantiscano la sostenibilità del debito ed equilibrio dei bilanci in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea.
Il ruolo certamente cruciale delle autorità monetarie (la loro funzione di freno e di impulso nei confronti delle scelte compiute nelle sedi rappresentative, istituzionali e non istituzionali) si allontana dunque ancor di più dal livello nazionale, seguendo un iter che appare peculiare del nostro Paese e tanto più allarmante se si pone mente al generale fenomeno di attribuzione di un ruolo propulsivo condizionante e determinante a quel complesso di soggetti extra- o internazionali che si raccolgono sotto il nome di finanza internazionale, esercitato senza alcun presidio di responsabilità politica (neppure diffusa o informale), per effetto di una sorta di sistema di deleghe ricevute dagli Stati in corrispondenza con la progressiva riduzione delle competenze dei parlamenti nazionali.
In tale contesto, non può dunque rassicurare l’indicazione della Bce secondo cui il mancato rinnovo del Cbga non incide sulle regole che governano le riserve auree: l’Italia le ha già profondamente mutate tra il 2013 e il 2014, legittimando la titolarità privata delle quote di capitale della Banca d’Italia, con conseguenze che – nonostante alcune apodittiche opinioni contrarie – investono anche l’appartenenza di tali riserve.
L’autorevole affermazione dell’Istituto di Francoforte costituisce però un richiamo importante al rilievo delle scelte compiute dai singoli ordinamenti nazionali, che non può essere attutito e meno ancora escluso dalla generica invocazione di “tendenze globali”, come del resto dimostrano le cennate diversità di approcci e soluzioni che, anche in materia monetaria, nonché di riserve auree, sono stati prescelti dagli altri Stati europei.
Ma il nostro Paese, proprio sulle grandi e decisive questioni, sembra rifiutare “culturalmente” la dimensione costituzionale, preferendo confidare (benché oggi con ben poco realismo) sulla forza motrice di quella sorta di canale parallelo tante volte ricostruito in termini di “costituzione materiale”, attraverso il quale è stato in larga misura depotenziato il disegno costituente originario, poi sostituito con una nuova architettura, che si intravvede in filigrana attraverso i cit. artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. e che oggi esercita tuttavia un’effettiva capacità di direzione e orientamento cogente rispetto al quale poco sembrano potere i vecchi attori di quel canale alternativo, paradossalmente decaduti con la matrice ordinante del 1946 che hanno contribuito a dissolvere.
I profili evolutivi dell’attuale crisi di governo pare lascino presagire, essendovi avvisaglie in tal senso, che essa verrà risolta seguendo schemi ancora una volta difformi da quelli tipici della democrazia parlamentare.