Sono le parole che ci permettono di guardare il mondo, di orientarci in esso. Non è strano: pensiamoci bene. Quando infatti vediamo qualcosa, sappiamo già in qualche modo che cos’è, sappiamo cos’è che vediamo. I nostri occhi sono guidati dall’idea di ciò che stiamo guardando. E quest’idea noi la fissiamo e la esprimiamo attraverso parole.
Le parole, insomma, guidano il nostro sguardo: che siano pronunciate oppure no. Si tratta di una prerogativa di noi esseri umani. Gli animali non ci riescono. Certo: gli animali guardano il mondo, interagiscono con esso e, per farlo, usano anche una sorta di linguaggio. Ma del mondo essi non parlano. Non riescono a nominarlo. Per nominare le cose, infatti, bisogna staccarsi da esse, e poi ritornarvi grazie al nome con cui le chiamiamo. Le parole sono un tramite, un ponte fra noi e il mondo: e solo gli esseri umani questo ponte sono in grado di attraversarlo.
In che modo lo attraversiamo? Com’è che siamo in relazione con le cose, con il mondo, con gli altri esseri umani? Più che con tanti discorsi, lo facciamo – dicevo – con i nomi. Lo facciamo chiamando per nome ciò che abbiamo davanti. Le nostre parole, infatti, non sono definizioni, né costituiscono solo le parti di una frase. Sono anzitutto nomi. Sono ciò attraverso cui, nominandolo, facciamo essere qualcosa davanti a noi, diamo a esso importanza, lo condividiamo con altri.
La Bibbia mostra in maniera molto chiara com’è che tutto questo avviene. All’inizio del libro della Genesi, come ben sappiamo, Dio crea il mondo appunto nominando le cose – cielo, terra, acque –, cioè facendole essere mentre prima non erano. L’uomo in generale, poi, è colui che può ri-nominare ciò che Dio stesso ha nominato. Lo può fare se vuol entrare in rapporto con gli altri esseri: se vuole che siano qualcosa di significativo per lui. Nel secondo capitolo della Genesi, infatti, Dio incarica Adam di dare i nomi agli animali. Solo così, infatti, egli può essere responsabile delle creature.
Ma a partire da qui – da questa capacità, che l’essere umano possiede, di nominare le cose – emergono alcuni problemi. I nomi, infatti, possono essere sbagliati. Chi chiamo può anche non rispondere. Le parole possono non solo consentire una comunicazione, ma anche ostacolarla. Esse, come dicevo, da una parte sono un ponte: offrono un contatto, un’opportunità di relazione. Ma dall’altra parte fanno da filtro fra noi e le cose, fra noi e gli altri esseri umani. In sintesi, come purtroppo sperimentiamo sulla nostra pelle: con le parole noi ci intendiamo l’un l’altro. Ma con le parole, anche, ci fraintendiamo.
Come gestire questa situazione? Come guardare il mondo in maniera giusta attraverso le parole? La risposta è semplice: dipende dalla consapevolezza che non siamo noi, niente affatto, i signori delle nostre parole. Non siamo noi a creare il linguaggio e a dominarlo. Il linguaggio, le parole, sono qualcosa che ereditiamo da altri, che rivolgiamo ad altri, che scambiamo con altri. Il linguaggio, le parole, sono esperienze del fatto che il nostro essere è un essere relazionale.
Se lo dimentichiamo, se riteniamo che il nostro discorso sia solo qualcosa di privato, di narcisistico, di autoreferenziale, allora il fraintendimento è inevitabile. Se ci chiudiamo in noi stessi, non solo non capiamo gli altri, ma non sappiamo più neppure chi siamo. Non guardiamo più il mondo grazie alle parole, ma contempliamo solo parole vuote. E il mondo stesso, allora, ci appare senza senso.
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L’articolo anticipa la riflessione che l’autore svolgerà oggi al Meeting di Rimini, ore 12. durante l’appuntamento dedicato a “Guardare il mondo attraverso le parole”