L’altro giorno è morto un ragazzo che era in stato vegetativo da 31 anni. Si chiamava Ignazio Okamoto e la notte tra il 18 e il 19 marzo 1988, cioè la notte della festa del papà, l’auto nella quale viaggiava era stata coinvolta in un terribile incidente. Con lui c’erano altri quattro amici. Uno era morto subito e Ignazio, invece, di madre bresciana e papà messicano di origine giapponese, era andato in coma.
Da allora era iniziata una storia, terminata venerdì scorso, che è meglio far raccontare dai suoi genitori perché, mentre in Italia ci arrovellavamo su Piergiorgio Welby (2006), Eluana Englaro (2009), Dj Fabo (2017) solo per citare i più famosi, loro, come i giusti del vangelo che neppure sapevano il bene che facevano (cfr. Mt 25, 37-39), si erano chiusi in casa e avevano dedicato la vita a “Cito” (questo il soprannome di Ignazio).
Marisa, la madre, racconta a Il Giornale di Brescia che “a volte è capitato che dagli occhi di Ignazio scendessero delle lacrime e così abbiamo sperato nel miracolo. Mio marito ha lasciato il lavoro e per trentuno anni ha seguito in casa nostro figlio. Ci siamo isolati dal mondo”.
Ed Hector, il padre, a Repubblica ha spiegato cosa pensasse di un figlio morto a cinquantaquattro anni ma i cui ultimi ricordi felici risalivano a quando di anni ne aveva ventidue.
“Per noi non è stata una decisione su cui abbiamo ragionato tanto: pur avendo qui in zona tante strutture che avrebbero potuto accoglierlo abbiamo quasi subito voluto che stesse con noi. Era quello che andava fatto, e che mi sentivo di fare”.
Era quello che andava fatto e che si sono sentiti di fare. Questo è il passaggio davvero decisivo: far sì che i percorsi del nostro cuore uniscano ciò che va fatto con ciò che ci sentiamo di fare. Perché, se anche san Paolo diceva di non riuscire a fare a volte quello che andava fatto (cfr. Rm 7, 18-25), non si capisce perché a noi debba essere così difficile riconoscere la stessa fragilità.
Eppure il cuore di Hector e quello di Marisa hanno faticato ma non hanno mai vacillato. Addirittura nei prossimi giorni avrebbero firmato il contratto di assunzione per un assistente perché, non essendo più giovani, avevano iniziato a pensare a chi si sarebbe preso cura di Ignazio quando loro non sarebbero più stati in grado di farlo. Quel contratto, quel pensiero al “dopo di noi” comune a tante famiglie, non è servito più, ma era l’ennesima manifestazione di una scelta che era iniziata trentuno anni prima. Fin da allora, il padre aveva deciso di lasciare il lavoro per accudire il figlio.
Ma come c’erano riusciti da soli? Semplice: non erano mai stati soli. “Il mondo in qualche modo ci è venuto incontro. Fino a quando c’è stato il servizio militare obbligatorio la Caritas ci mandava a casa i ragazzi obiettori di coscienza per aiutarci ad accudire Cito, a cambiarlo, a lavarlo. Poi in tanti ci hanno aiutato, anche economicamente, e penso a don Armando Noli e a chi, in tutti questi anni, non ci ha lasciati soli”.
Cosa ha pensato Hector della scelta fatta dal padre di Eluana, Beppino Englaro?
“Non ho mai pensato di giudicare la scelta di un altro padre, di altri genitori. Ho rispetto per tutti, ogni storia è diversa. So che noi abbiamo sempre pensato che fosse questa la cosa giusta. Ma per noi”.
Che senso hanno trentuno anni di assistenza ad una persona in stato vegetativo? Hanno il senso dell’amore. Perché quando amiamo qualcuno promettiamo di amarlo per sempre, di amarlo gratis, di amarlo con tutta la nostra persona anche quando non sapremo cosa sarà della nostra persona e della persona che amiamo. Che senso ha la cura di una persona destinata alla morte? Ha il senso di riempire quel tempo di amore. Ecco cosa hanno fatto Marisa e Hector. Senza giudicare quei genitori che non ce la fanno a fare “ciò che è giusto”.