È probabilmente la prima volta in Italia, forse all’estero è già successo, che un omicidio venga confessato prima che ai familiari o alle forze dell’ordine sui social. Alberto Pastore ha ucciso a coltellate il 23enne Yoan Leonardi, suo amico dall’infanzia, fuori di una discoteca. Motivo: gelosia. Dopo l’omicidio mentre tentava la fuga in macchina ha prima postato su Facebook la confessione di quello he aveva fatto, poi ha dato vita a una diretta su Instagram in cui di nuovo confessava il suo gesto: “Eh ragazzi, come ben sapete io ho fatto una cazzata e adesso sto pensando a come suicidarmi perché non potrò mai vivere con questa cosa che mi tormenterà”. Aggiungendo: “Adesso non so se Yoan ci sarà ancora, ma il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente che per amore non bisogna mai intromettersi nelle faccende altrui. Anzi, è meglio pensare a sé stessi e farsi la propria vita senza tenere tutto nascosto al proprio migliore amico”. Cosa significa questo tipo di confessione? Cosa ci dice di una generazione nata e cresciuta con Internet, che ha fatto dei social il proprio mondo, benché virtuale, più reale della realtà? Lo abbiamo chiesto a Claudio Risé, scrittore, giornalista, docente universitario e psicoterapeuta italiano, autore di La scoperta di sé (San Paolo edizioni): “Questa vicenda terribile mi sembra illustri bene l’attuale distruzione dell’Io personale” ci ha detto. “Questa generazione manca dell’Io, sostituito dal pupazzo vuoto di cui parla Eliot nella sua poesia The hollow man, oggi completamente identificato con la qualità di utente dei social. Invece di un soggetto vivente, la persona unica e irripetibile, c’è un individuo che si percepisce come terminale del web”. Chiediamo a Risé di approfondire queste importanti dichiarazioni: “È un mutamento antropologico di grande significato, perché rappresenta con chiarezza la perdita di umanità che avviene in questo processo”.
LE RESPONSABILITÀ DEGLI ADULTI
C’è chi dice che questa generazione che è nata e cresciuta con Internet ha perso il senso della realtà, vive in un mondo virtuale incapace di distinguere appunto la realtà dalla finzione: “È peggio di così. Sono diventati per certi versi virtuali loro stessi. Non agiscono più come persone nel mondo della vita, ma come individui che vivono, si muovono e provano sentimenti secondo le modalità del mondo virtuale, quindi fortemente falsificati”. Sono quindi incapaci di distinguere un sentimento reale da uno virtuale? “Ce lo fa capire la testimonianza della ex fidanzata che dice che non c’era niente di vero nella gelosia che l’omicida provava per la vittima, non c’era alcun tradimento reale. È una sorta di mitomania sistematica dove qualsiasi cosa diventa un ‘romanzo’ da comunicare per fare colpo. La vita viene ridotta per stravolgerla in questo modo, appunto romanzesco, per farne un evento digitale. È una patologia terrificante”. Assistiamo continuamente a giovani che mettono online qualunque cosa, filmati di bullismo, di pestaggi: è una sorta di narcisismo nella sua massima espressione? Cioè, “io esisto nella misura in cui appaio online?”. “Il fatto è che non c’è più interiorità, tutto è esternalizzato. C’è però una grande responsabilità di noi adulti: abbiamo insistito fino a livelli folli con la socializzazione come primo dovere educativo dell’uomo, ma abbiamo dimenticato che la socializzazione deve andare di pari passo con lo sviluppo dell’Io, che richiede anche momenti e periodi di riflessione, di intimità, di silenzio. Questa è una responsabilità di noi adulti, i giovani sono vittime della distruzione da noi fatta con un’educazione applicata anche nelle scuole, nei modi di comunicare dei media, proposta come stile di vita. E questo è il risultato”.
(Paolo Vites)