L’eredità del grande Alberto Sordi, una vicenda giudiziaria che oramai si protrae da diversi anni e che vede contrapposti gli eredi della famiglia dell’attore capitolino morto nel 2003 (e le sue sorelle, scomparse anch’esse in periodi diversi) e le nove persone che, pur assolte in primo grado, erano accusate di aver truffato la sorella Aurelia, tra cui l’autista dell’Albertone nazionale, altri dipendenti che lavoravano nella villa e pure due avvocati e un notaio. Come è noto, infatti, attorno al patrimonio dei Sordi c’è una battaglia che va avanti da tempo dal momento che si parla di decine di milioni di euro, ma sono stime che peccano in precisione e il punto essenziale è che dopo la morte di Aurelia, avvenuta nel 2014, e dopo aver vergato quel famoso testamento che è il vero oggetto del contendere, non vi sono più eredi dell’attore e così era inevitabile si aprisse un contenzioso fra tutti gli altri familiari prossimi. Attorno a questa vicenda si intreccia poi quella del presunto raggiro perpetrato ai danni di Aurelia, spentasi all’età di 97 anni, da parte non solo dell’autista di famiglia, Pietro Artadi, ma pure di altre persone: tutto era cominciato da quando una banca denunciò dei movimenti di denaro sospetti sul conto dei Sordi ed emerse che l’uomo aveva in mano una misteriosa “procura” della signora Aurelia per gestirne in beni.
LA QUERELLE GIUDIZIARIA SULL’EREDITA’ DI SORDI
Insomma quello che ha lasciato Alberto Sordi assieme alle sue due sorelle è un vero e proprio “tesoro” congelato dato che la vicenda giudiziaria attorno al patrimonio si è conclusa, ma solo per adesso, con ben nove assoluzioni nella primavera scorsa per tutti gli imputati e con la motivazione che “il fatto non sussiste” e che non sarebbe stato perpetrato alcun tentativo di circonvenzione ai danni di Aurelia Sordi quando era oramai anziana. La sentenza infatti ha fatto cadere le accuse non solo nei confronti dei suddetti domestici ma anche di alcuni noti professionisti, tra cui avvocati e notai, che erano accusati di aver messo su un vero e proprio raggiro organizzato nei confronti della donna per accaparrarsi l’imponente eredità. Molti dubbi restano tuttavia in merito alla vicenda parallela del testamento scritto di proprio pugno dalla “signorina Aurelia”, come veniva chiamata, e che sarebbe stato redatto nel 2011 prevedendo che il patrimonio dove essere interamente destinato alla “Fondazione Museo Alberto Sordi” e che avrebbe sede a Roma in Via Druso nei pressi delle Terme di Caracalla; come è noto, all’epoca la fondazione era presieduta da Giambattista Farelli, ex broker di Sordi e nel cui Cda era presente lo stesso Arturo Artadi, l’ex autista e factotum peruviano che secondo l’accusa sarebbe dietro alla truffa milionaria. Inoltre va ricordato che subito dopo l’apertura del testamento alcuni parenti si erano fatti avanti reclamando la loro parte di eredità.
IL PRESUNTO RAGGIRO AD AURELIA
L’ipotesi avanzata dall’accusa era che nei suoi ultimi anni di vita Aurelia Sordi sia stata ripetutamente raggirata da parte dei suoi più stretti collaboratori e da gente che gravitava attorno alla villa di famiglia: il pm titolare del fascicolo di indagine aveva chiesto a vario titolo condanne che andavano da due a quattro anni di reclusione per i nove indagati ma in Camera di Consiglio in primo grado sono stati tutti assolti non solo dal reato di circonvenzione di incapace ma pure da quello di ricettazione. Tra le motivazioni della sentenza, emessa lo scorso 28 febbraio, aveva destato molto scalpore quella secondo cui Aurelia, nonostante l’età, era ancora capace di intendere e di volere non avrebbe saputo gestire l’eredità del fratello; secondo i giudici, quando firmò la famosa procura per Artadi era nel pieno delle sue facoltà mentali e semmai era “anziana e inesperta” e secondo chi ha emesso la sentenza la donna avrebbe però almeno avuto bisogno di qualcuno che facesse da “tramite fra lei e il mondo esterno” per aiutarla a barcamenarsi tra questioni economiche troppo grandi per lei. Una decisione che, come accennato, ha fatto discutere e che porterà inevitabilmente al processo di Appello per una querelle che non avrà a breve la parola “fine”.