Qualunque governo guiderà il Paese, non potrà che ripartire dal lavoro: quello che manca e quello che già c’è, ma ogni giorno è alla prova. Sotto questo profilo l’ipotesi di formazione di una nuova maggioranza fra Pd e M5s ha portato di per sé a un confronto non inutile sui contenuti della futura politica del lavoro. E ha rilanciato i termini della sfida-occupazione: sia per un nuovo esecutivo, sia allorché gli elettori fossero richiamati alle urne.
M5S – finora forza di maggioranza del Governo giallo-verde e titolare del ministero con il vicepremier Luigi Di Maio – lascia in eredità principalmente il cosiddetto “Decreto dignità” . È stato il primo provvedimento strategico varato dall’esecutivo Conte, più di un anno fa. E nei fatti è andato a correggere all’indietro il Jobs Act: cioè la importante riforma del quinquennio di governo a guida centrosinistra.
Il Jobs Act – concepito dal Governo Letta e poi realizzato dal ministro Giuliano Poletti nell’esecutivo Renzi – aveva aperto tre orizzonti: l’affermazione delle “tutele crescenti” come strumento centrale di flessibilizzazione dei contratti di lavoro; il riordino degli ammortizzatori sociali in uscita (Naspi); e soprattutto lo sviluppo delle politiche attive del lavoro con il coinvolgimento strategico delle agenzie di mercato.
Il disegno – sul fronte critico della lotta alla disoccupazione, soprattutto giovanile – è rimasto per larga parte irrealizzato, al di là delle dinamiche di breve periodo legate agli incentivi per le assunzioni sul versante contributivo. Ed è stato proprio il Decreto dignità a marcare subito in modo netto la sfiducia della maggioranza M5S-Lega nella riforma, sterilizzandone lo sviluppo anzitutto con la restrizione dei format contrattuali innovativi, sul “tempo determinato” e del lavoro somministrato. L’ambiziosa logica delle politiche attive – mai realmente avviata e sperimentata – è stata infine rimodellata drasticamente nel pacchetto “reddito di cittadinanza”, imperniato fra l’altro sull’allestimento delle rete di “navigator” e sul rilancio del collocamento pubblico.
L’approccio “controriformistico” è risultato comunque chiaro nel suo ritorno a logiche stataliste, assistenzialiste e vetero-sindacali. Alle imprese, gli operatori privati del mercato del lavoro, alle stesse Regioni è stato rapidamente ritirato il passaporto di interlocutori e protagonisti attivi della politica del lavoro. La leva dell’education e degli investimenti in capitale umano – molla delle politiche attive – è stata disattivata. Nel frattempo il tasso di occupazione in Italia nell’eurozona non ha mutato posizione: resta migliore solo di quello della Grecia.
L’anno della “controriforma” del Jobs Act rischia quindi di rivelarsi un anno pericolosamente perduto quando già si addensano nuove nubi di recessione globale. Sicuramente non andrà perduta l’impasse politica italiana dell’agosto 2019 se servirà a rimettere in moto una riforma che l’Azienda-Paese era riuscita a darsi per fronteggiare la sua emergenza più grave.