Come si sospettava, i carabinieri del Ros dopo un ennesimo incontro con le autorità keniote sembrano confermare che Silvia Romano sia stata portata in Somalia. Un rapimento su commissione, come già molti indizi avevano fatto capire, da parte di qualcuno dei tanti gruppi terroristici somali islamisti messo in atto da criminali comuni kenioti. Purtroppo della cosa più importante, la vita di Silvia, si sa una cosa soltanto: era certamente viva lo scorso Natale, se lo sia ancora oggi nessuno lo sa o vuole farcelo sapere. Ne abbiamo parlato con Domenico Quirico, corrispondente de La Stampa e vittima lui stesso di un lungo drammatico rapimento in Siria nel 2013, durato ben cinque mesi: “Le forze che una persona in quelle condizioni riesce a trovare per non soccombere le può capire solo chi ha vissuto una esperienza del genere. Sono indescrivibili, ma in ogni momento, ogni istante si pensa solo a sopravvivere, si pensa alla vita”, ci ha detto.
Troppi misteri in questo caso. Troppo tempo sprecato quando era facile capire che Silvia Romano era finita in Somalia. Come mai nessuna richiesta di riscatto, a cosa miravano davvero?
È difficile dirlo. Al Shabaab è una organizzazione molto complessa che in parte è di tipo terroristico militare, ma dall’altro anche politica. Il presidente di uno dei diversi stati in cui è diviso il paese è un ex Shabaab ed è appena stato riconfermato tale. Ci sono ex Shabaab anche nell’organizzazione politica dello stato somalo. È difficile dire quale gruppo sia responsabile, quali scopi si proponevano, cosa vogliono. Chi può dire che non sia stato chiesto un riscatto? Queste trattative, io spero, come si usa in casi analoghi avvengono segretamente.
È passato molto tempo. La nostra intelligence è nota per la sua efficienza, ma le autorità del Kenia hanno combinato diversi guai, che ne pensa?
Diciamo che il modo in cui è stata condotta l’indagine non è stato un capolavoro di efficienza, basti pensare che all’inizio perdendo un sacco di tempo si cercava nella criminalità locale. Difficile invece che una operazione del genere venga messa in atto da malavitosi locali. I somali controllano tutto il confine fra i due paesi e ci sono vari interessi in gioco.
Del tipo?
È una zona molto delicata, la frontiera di fatto non esiste. Il sud del Kenya è popolato da una comunità somala numerosissima, le frontiere stesse tra i due paesi sono state fissate da Mussolini e dal ministro degli Esteri inglese nel 1937 dopo la fine della guerra in Etiopia, quando la Gran Bretagna riconobbe l’impero italiano, mentre non sono mai veramente state riconosciute da chi ha preso il posto delle colonie inglesi e italiane al potere. Non so se la polizia keniota è in grado di occuparsi di casi del genere.
Un pensiero per Silvia Romano: una giovane di soli 23 anni, chissà in quali condizioni fisiche, dopo otto mesi dal rapimento. Che cosa si sente di dire?
L’energia che uno trova in sé in situazioni estreme come questa è insospettabile per chi non le ha provate. È una storia terribile e con una logica interna che chi non ha vissuto non può capire. Quello che posso testimoniare io è che l’energia, la voglia di sopravvivere, di tornare a casa ti anima e ti spinge a resistere. Vale sicuramente anche per lei. Importante è continuare a pensare che lei sia viva in modo da agire di conseguenza. Che tutti questi mesi passati dal suo rapimento significhino aver passato dei limiti che pensiamo definitivi è un errore.
Intende dire che il troppo tempo trascorso significa che è morta?
Dico l’opposto. Il tempo nei sequestri non è il tempo che conosciamo nella vita normale, è un tempo dilatato e diverso. Dobbiamo pensarla viva e agire per liberarla.
(Paolo Vites)