Nella “Vocazione di Matteo”, il Caravaggio, pittore della luce, decide di mettere Cristo in ombra. È Matteo invece ad essere illuminato come il vero protagonista di quella vicenda umana che si chiama appunto vocazione. Di Gesù si colgono, nella penombra, solo la mano e il volto, quasi che in principio il Mistero scelga di affacciarsi discretamente ai bordi dell’io sollecitando appena gli occhi del cuore a valicare il limite della semioscurità.
Soltanto qualcuno – nel dipinto come nella realtà – mostra di avvedersene: così i due garzoncelli paiono scostarsi in una sorta di strana specularità, per fare posto a quel sia pur tacito imperativo di Cristo raccolto dal subitaneo “sì” di Levi: un “sì” già pronunciato pur dentro la sorpresa di uno sguardo interrogativo. Più certo che smarrito, Matteo dunque risponde. Ed è nel realizzarsi di questa corrispondenza, che il Caravaggio fissa l’istante misterioso e perfetto della libertà quando aderisce.
Grazie al contraccolpo di una bellezza che lo trova impreparato e teme di non sostenere, l’uomo quasi vorrebbe sottrarsi. Per un attimo infatti anche Levi vacilla: sembra addirittura che la sua persona faccia corpo unico con i due personaggi capotavola “immersi – come ebbe a dire mirabilmente il Longhi –nell’ombra lurida della loro perplessità”. Il gesto di Cristo, sostenuto e timidamente confermato da Pietro, s’impone tuttavia con accento provocatorio. Si coagula dunque, in un particolare del tempo, il disegno pensato dall’eternità; e se Matteo con la destra rimane ancora l’avido gabelliere che conta l’incasso della giornata, con la sinistra chiama in causa sé stesso per avere in qualche modo un riscontro che ad essere interpellata è proprio la sua persona.
Sono così diversi, Gesù e Pietro, dal resto del gruppo: senza avere nulla di spirituale, appartengono tuttavia a un altro mondo: lo sa bene il Caravaggio che non esita ad esibirne i piedi nudi, facendo affiorare dall’ombra il panneggio del grezzo mantello che avvolge la corpulenta sagoma del pescatore di Galilea. Contrasta ancor più, dinanzi a questa essenzialità scarna e vigorosa, lo sfarzo ricercato dei costumi secenteschi. La figura del giovane in primo piano di schiena, si dimostra addirittura risolutoria per l’equilibrio compositivo della tela: mentre infatti il busto pende verso destra, quasi a creare un ponte ideale con quei due intrusi comparsi all’improvviso, la sua spada – come una spessa linea guida – pare trascinarlo drammaticamente verso l’antica compagnia. È forse questa la soluzione che il Caravaggio escogita per costringerci a fissare nuovamente Matteo, a non distrarci dalla sua persona: tant’è che, se con una linea immaginaria prolungassimo l’elsa della spada, questa intersecherebbe proprio l’indice di Levi che punta sé stesso.
Tutto insomma nel dipinto confluisce inesorabilmente su di lui, ma – sopra tutti – la luce che spiove da una fonte esterna, calda e solare fino a raggiungere e a scovare Levi anticipando così, figurativamente, il gesto di Gesù che con la mano lo chiama. È Cristo stesso, dunque, a veicolare quel fascio dirompente e mirato. Matteo, senza opporre resistenza, si lascia interpellare e il Caravaggio – forte anche di una tecnica che non conosce rivali – traduce il messaggio con singolare realismo implicandoci tutti nell’avvenimento, più da protagonisti che da spettatori.