Il nuovo governo ha fatto annunci importanti sul tema della famiglia. In vari punti dell’accordo di governo si parla di sostegno a quelle a basso reddito, di inserire misure più efficaci per quelle numerose. Giuseppe Conte, nel discorso alle Camere, è andato sul concreto parlando di azzerare la retta per gli asili nido. “Tutti i governi hanno detto qualcosa sulla famiglia, a prescindere dal colore politico. Ma non hanno capito che per aiutare a costruirne una servono politiche stabili nel tempo”. Questo il commento di Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, che ci ha spiegato come siamo arrivati al disastro demografico attuale e di come prendere a modello altri paesi europei, in primis la Francia, per tentare di uscirne.
Il Governo ha intenzione di accelerare sull’assegno unico ai figli, partendo da chi è senza lavoro. Come valuta questa misura?
La vedo positivamente, ma solo se rappresenta un provvedimento stabile nel tempo e migliorativo.
Le misure di assistenza sociale, ultima il reddito di cittadinanza, vanno rimodulate?
Una modifica importante adottata in altri paesi è avere come base di riferimento sia per l’imposizione fiscale, sia per le prestazioni (sociali), di reddito familiare e numero di figli. In Italia le ricalibriamo troppo spesso.
Il premier Conte ha annunciato nel suo programma di governo interventi a favore degli asili nido, considerati una priorità. Cosa ne pensa?
Benvenuto. Deve diventare una politica di tutti i ministeri: il singolo provvedimento o il ministero della famiglia non basta mai. Quello della famiglia deve essere un problema del quale il Governo tiene conto nel varare ogni misura che può impattarlo. È importante anche quante persone lavorano in famiglia: c’è un potenziale di donne che potrebbero lavorare, se solo fossero sostenute.
Azzerare totalmente le rette per gli asili nido è una risposta?
Non serve una politica che sia generosa, ma equa. Basterebbe fare in modo che chi non ha reddito non paghi la retta, mentre chi ce l’ha debba versare un importo non elevato.
In tema di aiuti alle famiglie il programma del nuovo governo è troppo vago?
In questo momento, in cui ci sentiamo tutti europeisti, basterebbe allinearsi all’Europa. Una politica di grande successo la fa la Francia, raggiungerla vuol dire spostare l’ 1% del Pil a politiche per la famiglia. Si tratta di 20 miliardi di euro, una cifra molto alta da spostare in un momento come questo. Mi accontenterei comunque di maggiori accantonamenti graduali. Di fatto è togliendo soldi che siamo arrivati dove siamo ora…
Ci può spiegare meglio come siamo arrivati alla situazione odierna?
Ci fu un enorme trasferimento di risorse che risale al 1996/1997. Era l’anno buio della natalità italiana, il minimo storico di figli per famiglia: 1,16. Ai tempi la cassa assegni familiari aveva un fondo per la maternità, che riportava un avanzo da anni. L’Inps, che aveva altri suoi comparti in passivo e doveva far quadrare i conti, tolse quei soldi, invece di usarli a sostegno delle famiglie. Ricordiamoci poi che la bassa natalità è alla base del problema di sostenibilità delle pensioni. Nel momento peggiore si tolsero i fondi alla famiglia: ora stiamo cercando di recuperare una situazione che nel frattempo è diventata irreversibile.
Che cosa è successo da allora?
Negli ultimi vent’anni la popolazione italiana in età da figli, 20-40 anni per intenderci, è diminuita di 4 milioni di unità. È come se fosse sparita la popolazione di una regione come il Piemonte, fatta di persone nel pieno delle loro energie, in grado di portare avanti l’impegno gravoso di costruire una famiglia.
Siamo una popolazione destinata all’invecchiamento…
La natalità non è solo un fatto legato al numero di figli, ma anche un indicatore dello stato di salute e speranza di un Paese: natalità bassa vuol dire una prospettiva sul futuro bassa, un elemento di crisi. Per avere una stabilità demografica servirebbero 2,1 figli per famiglia. Trent’anni fa eravamo su tale cifra. Oggi, nonostante l’afflusso di 5 milioni di migranti, siamo a 1,34. E poi l’immigrazione non basta, dopo 3-4 anni il tasso di natalità delle famiglie di migranti scende verso il livello italiano.
Come si può fare una politica che incentivi la natalità?
Avere figli è un atto di libertà, non si fanno per scelta di Stato: preferisco parlare di politiche per la famiglia. Tutti i governi passati negli ultimi vent’anni, a prescindere dal colore politico, hanno detto qualcosa sul tema, ma non hanno mai capito quanto le nascite siano un segnale cruciale per capire lo stato di salute del Paese. L’unico Stato che ha fatto una politica vagamente mussoliniana, all’insegna del “fate più figli”, è la liberalissima Svezia a metà degli anni Novanta, e ha anche funzionato.
Anche la stabilità economica, la sicurezza del posto di lavoro, è importante…
Prendiamo l’esempio della Germania. Anche se i livelli di reddito sono buoni solo per le aziende esportatrici, con l’occupazione arrivata ai minimi fisiologici la natalità è aumentata. Ma anche i tedeschi hanno il nostro problema, il numero di donne che possono avere figli è diminuito.
Poi c’è la Francia, l’esempio virtuoso più noto.
In Francia la politica per la famiglia è splendida, se viene toccata scendono in piazza. Anche se quando l’hanno lanciata, alla fine della Seconda guerra mondiale, l’obiettivo non era sostenere una natalità in declino, ma contrastare di nuovo la Germania, dopo tutte le sconfitte subite.
Nacque come politica di potenza.
Ora questa prospettiva è sparita, ma se ne sono tenuti il premio. Hanno visto che funzionava: attutisce il disagio sociale e dà dei risultati. Negli anni poi l’hanno affinata.
Ci faccia un esempio concreto.
Prendiamo ad esempio la politica del rentrée scolaire. Ogni fine agosto, al rientro dei figli a scuola, alle famiglie entro un limite di reddito ragionevole lo Stato francese dà 300 euro a figlio per pagare cancelleria e libri di testo. È una politica mirata a un obbiettivo specifico, a un problema reale.
Si avvicina l’appuntamento con la Legge di bilancio 2020. Secondo lei, che manovra dobbiamo aspettarci?
Al primo punto devono esserci gli investimenti. Forse per la prima volta dall’Unità d’Italia abbiamo gli investimenti netti, pubblici più privati, negativi. Dobbiamo assolutamente invertire la rotta. Sono crollati, e le politiche di austerity, con “grande lungimiranza”, ne sono le prime responsabili.
Ora però il clima con l’Europa è cambiato. Dobbiamo aspettarci maggiori aperture sulla flessibilità?
È possibile che ci sia un segnale, anche perché abbiamo un commissario di peso. Sarà un piccolo margine, ma i problemi restano. Ancora adesso l’output gap, la differenza tra Pil effettivo e potenziale, è positivo. Questo vuol dire che il Paese sta andando addirittura meglio di come dovrebbe andare: quindi la disoccupazione attuale, al 9,9%, è piena occupazione. In un momento come questo, è come se da Bruxelles ci dicessero che siamo al massimo splendore, e che quindi dobbiamo ridurre il deficit.
(Lucio Valentini)