“La vita non è una canzone di Springsteen” dice Roops, un ragazzo sikh che veste di t-shirt con l’effige di Bruce Springsteen, “chiodo” da rocker e obbligatorio turbante in rispetto alla sua religione e alla sua razza, al protagonista Javed che invece è pachistano di famiglia. Già in questa breve scena sono racchiusi due momenti fondanti del bel film, liquidato in maniera superficiale dalla critica nostrana, “Blinded by the Light” della regista indo-inglese Gurinder Chadha, già autrice dell’altrettanto brillante “Sognando Beckham”.
I due momenti sono l’amicizia sulla carta impossibile tra un indiano e un pachistano i cui paesi di origine sono da decenni sull’orlo di una guerra nucleare, la loro differenza religiosa che diventa invece amicizia e il fatto che le canzoni rock benché possano salvarci la vita indicandoci la strada, non sono in grado di sostenerci poi quando la vita diventa lotta quotidiana, diventa realtà. Per un momento, citando Springsteen le cui canzoni, una dozzina, mai concesse in tale numero prima per un film dal musicista americano, sono, insieme a quelle di tanti altri artisti quelle che ci fanno dire che “abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da tutto quello che ci hanno insegnato a scuola”, ma poi la vita la dobbiamo affrontare da soli, contando su di noi.
E’ la trama di questo film delizioso, accusato di essere troppo leggero, ma meglio questa tenera e a tratti commovente leggerezza di tante seghe intellettuali di cui sono pieni i film contemporanei. Esci dal cinema e anche alla soglia dei tuoi 60 anni hai voglia di ricominciare tutto da capo, con entusiasmo e positività. Parafrasando il giornalista che lanciò Springsteen al successo, “in una sera in cui avevo bisogno di sentirmi giovane, questo film mi ha fatto sentire come se la mia vita potesse ricominciare di nuovo”.
Toccando temi come la disoccupazione, la difficoltà dell’integrazione razziale, il risorgere del neofascismo populista e sovranista, benché il film sia ambientato nel 1987, “Blinded by the Light” è opera di straordinaria attualità e impegno sociale, altro che leggerezza. Meravigliosa la figura del padre del protagonista, il nigeriano Kulvinder Ghir, attore da premio Oscar, che strappa commozione e lacrime in più di una scena, nonostante impersoni la figura del “cattivo”, il padre padrone dall’impostazione rigidamente islamica che costringe ogni membro della famiglia all’ubbidienza cieca soffocandone ogni anelito di indipendenza. Un uomo di mezza età scappato a 15 anni dal Pakistan per cercare fortuna “per la famiglia” come dice più volte, condizione che vuole imporre a moglie e figli: un pachistano pensa soltanto alla famiglia. Rimasto disoccupato per colpa delle politiche liberiste e criminali di “Maggie” Thatcher come centinaia di migliaia di persone, vede crollare il suo sogno: “dove ho sbagliato?” si chiede, quando esce ogni giorno dall’ufficio di collocamento sconfitto perché non trova alcuna occasione e con le lacrime negli occhi, eppure dignitoso indossando il suo vestito migliore. “L’unico sbaglio che ho fatto è stato venire in questo paese”, dice quando recandosi al matrimonio della figlia maggiore, si trova in mezzo a una manifestazione di razzisti neo fascisti che lo picchiano insultandolo per essere un “pachi”, urlandogli di tornare a casa.
Da tutto questo fallimento, isolamento, incapacità di integrazione, emerge il sogno del figlio Javed di non finire come lui, in quella “città di perdenti” che è la miserabile e provinciale Luton. Sarà l’ascolto delle canzoni di Springsteen regalategli dall’amico sikh a fargli trovare dignità, forza e coraggio per intraprendere corsi di scrittura e giornalismo, per essere diverso dal padre e dal suo fallimento. Canzoni che si integrano perfettamente con le scene del film che diventa ora un musical, ora un dramma, ora un sogno, ora una lotta coi denti per difendere la propria identità (peccato non siano state tradotte nei sottotitoli, chi non le conosce a memoria farà fatica a capire la fusione straordinaria delle scene nei momenti top come quando si ascolta Thunder Road o Born to Run).
Ma alla fine neanche una canzone è abbastanza, anche se capace di essere universale e parlare a tutti come lo sono quelle di Springsteen: “Il nostro New Jersey è qui a Luton” dice quando viene premiato come miglior scrittore della sua scuola. Il padre, commosso, capisce finalmente chi è il figlio e il suo bisogno di libertà, riconciliandosi con lui. E gli dedica una frase memorabile: “Scrivi pure le tue storie, ma non dimenticare la nostra”. Appartenenza, legame con la propria famiglia, impossibile eliminarle se non si vuole diventare vittime della rabbia e dell’isolamento.
Blinded by the Light è un film indipendente a basso budget, un passion project basato sulla storia vera del giornalista Sarfraz Manzoor (raccontata nella biografia Greetings From Bury Park) e girato da Gurinder Chadha (Sognando Beckham), anche lei grande fan del Boss. Springsteen stesso è un grande amante del libro di Manzoor, che ha gettato le fondamenta per un film che trae vita dalle sue canzoni per il quale ha concesso come mai prima tante sue canzoni. Splendido.