La guerra è perduta. Quella iniziata dopo l’11 settembre si è trasformata in una guerra civile cronica. Era ed è una guerra apparentemente religiosa, che ci invia segnali molto chiari sui pericoli derivanti dalla “teologizzazione” dei conflitti.
Mesi dopo gli attentanti dell’11 settembre, la giornalista Elizabeth Spires scrisse alcune frasi che sintetizzavano parte della confusione del momento: “Guardiamo oltre le rovine di quel giorno e vediamo … cosa vediamo? Non vediamo alcun nemico. Solo fumo e macerie. Uno scenario terribile da contemplare”. Quando si hanno tra le mani le rovine del futuro, il carattere enigmatico e incomprensibile del danno subito genera un dolore difficile da sopportare. Si cerca il nome e il cognome di chi lo ha causato. E una volta che si trovano, non ci si dà pace perché il volto del terrorista, la sua storia e la sua ideologia sembrano insufficienti a spiegare il male provocato. La sensazione, abituale in questi casi, è cresciuta ancora di più dopo il crollo delle Torri Gemelle, perché dietro tanta sofferenza non c’erano “nemici da usare”.
Per questo ha avuto tanto successo politico la “guerra al terrore” inventata da Bush e dal gruppo teocon che lo consigliava. La risposta iniziata con gli attacchi in Afghanistan, che in seguito si sono estesi all’Iraq, ha semplificato le cose. Non era necessario comprendere la natura dei Pashtun, né il rapporto tra Islam e islamismo. Finalmente c’era una faccia malvagia dall’altra parte delle rovine contro cui si poteva combattere.
Nella “guerra al terrore” sono stati commessi due errori fondamentali. Il primo è stato la depoliticizzazione. Nel considerare terroristi i talebani e i combattenti sunniti, non gli è stata riconosciuta una capacità di essere interlocutori politici. Ciò ha ridotto subito la possibilità di ottenere buoni risultati. Il secondo errore è stata la “teologizzazione”. La guerra contro il terrore ha interpretato l’ideologia islamista come un fenomeno religioso che doveva essere opposto alla religione cristiana o a ciò che ne restava, ai suoi valori. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno promosso “l’alleanza dei credenti” (rafforzando l’Islam) per combattere i comunisti atei. Questa volta è stato alimentato l’immaginario di una guerra tra cristiani e musulmani. Non si è saputo vedere che l’islamismo è un fattore di secolarizzazione.
Nonostante le sue promesse, Obama non ha potuto porre fine alla “presunta” guerra religiosa iniziata da Bush. Sarebbe stato un errore andarsene senza porre rimedio al disastro provocato. Come è stato un errore lasciare troppo presto (2011) l’Iraq. Lo stesso che commetterà un Presidente isolazionista come Trump.
Diciotto anni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle, c’è mancato poco perché l’anniversario coincidesse con un incontro di Trump con i leader talebani a Camp David. Un consigliere della Casa Bianca aveva avuto la sfortunata idea di emulare l’incontro di Carter con i leader di Egitto e Israele. All’ultimo minuto, quello stesso consulente o qualcuno altro ha capito che non era conveniente chiudere un accordo in una data vicina all’11 settembre. L’accordo aveva molti elementi di resa. Comprendeva la riduzione delle truppe fino a lasciare solo 8.600 soldati e l’abbandono del Paese alla fine del 2020. Includeva anche la consegna di migliaia di prigionieri talebani e lasciare che il futuro fosse determinato da negoziati fra afgani. Non c’era richiesta nemmeno per un cessate il fuoco. Solo l’impegno a non addestrare i terroristi per attentati “contro gli Stati Uniti”.
Non ci sarà l’accordo di Camp David, ma ci sarà qualcosa di simile. Trump ha chiarito che le forze armate statunitensi non saranno “la polizia dell’Afghanistan”. Non ci sarà un sistema democratico, almeno per come lo concepiamo in Occidente, non ci sarà un buon sistema educativo, ovviamente non ci sarà qualcosa che assomigli a una minima uguaglianza tra uomini e donne. I talebani attualmente controllano il 46% del territorio in cui vive un terzo della popolazione. E hanno influenza su un’area più ampia. È difficile pensare che un Governo afghano possa gestire questa situazione senza supporto.
Il prezzo pagato, da quando Bush ha ordinato l’inizio degli attacchi, è stato elevato: 2.400 americani sono morti in questi anni. Dal 2009, oltre 30.000 civili afgani sono stati uccisi in attacchi di insurrezione. Cinque anni fa, le operazioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati sembravano aver iniziato a dare buoni risultati nel loro compito di addestrare e aiutare l’esercito afgano. Si era riusciti a liberare una parte importante del Paese dall’influenza degli estremisti. Ma ora i talebani sono più forti, gli alleati più deboli e la mancanza di chiarezza strategica degli Stati Uniti ha fatto il resto.
Si abbandona una guerra che non sarebbe mai dovuta iniziare, almeno nei termini semplicistici dell’occidentalismo naif in cui è stata formulata. Il Medio Oriente e l’Asia, la lotta contro il terrorismo, richiedono un impegno che sappia comprendere la complessità antropologica e culturale di ogni situazione, che vada oltre un globalismo e un universalismo superficiale. Il male, nella sua radice ultima, rimarrà indecifrabile. Non possiamo pretendere di eliminare le nostre paure con formule che politicizzano la religione.