La terra del futuro è colpita da misteriose scariche elettriche provenienti dallo spazio profondo. Mentre l’umanità abita Terra, Luna ed esplora pianeti con sempre maggiore facilità, la Nasa studia il modo per raggiungere e bloccare l’origine di questa minaccia. Incaricato della missione il valoroso astronauta Roy McBride (Brad Pitt), figlio d’arte del blasonato astronauta Clifford, disperso nello spazio.
Ad Astra è un’opera suggestiva, affascinante, visionaria, poco apprezzata dalla critica cinematografica. A mio parere, un altro ottimo film di fantascienza, un genere che solo sa dare emozioni intense, sogni infiniti, visioni disturbanti e stimolanti riflessioni di presente e futuro. James Gray ci porta a bordo di un’infinita antenna ultraterrena, che parte in terra, finisce nello spazio e intende captare i segnali della vita nell’universo. A pochi minuti dall’inizio del film, il buon vecchio Brad, in grande spolvero, viene catapultato nel vuoto per un incidente di percorso. L’uomo, per necessità, si salva perché sarà lui l’eroe della nuova avventura: un viaggio verso Nettuno, a caccia del padre.
Ad Astra è la poesia dello spazio, un film che concilia l’emozione degli eventi con la metafisica del cuore. Raccoglie il bisogno atavico dell’uomo di conoscere i suoi limiti, di scoprire la fine del mondo, ma anche di vivere l’equilibrio instabile della vita. Ad Astra è fantascienza, ma anche dramma. È corpo ma anche coscienza. Il mondo diventa, per due ore, l’ipotesi meravigliosa di futuro che non risparmia critiche all’idea di domani. Sulla Luna si viaggia, a bordo dei voli di linea Virgin, di là da venire. Una Luna commercializzata, divenuta aeroporto stellare, con Subway, luoghi di consumo, gente che viene e che va e varia umanità. Dalla Luna, infestata di predoni e concorrenze commerciali, si passa a Marte, 79 giorni di viaggio, il nuovo scalo spaziale del futuro. C’è Giove, Saturno, verso Nettuno, lontanissima meta di un viaggio di probabile sola andata. Un viaggio che, per l’astronauta, sembra una sorta di martirio annunciato, via di fuga per un’esistenza minore, fatta di “piccole idee” quotidiane, troppo misere da seguire. Davvero poco per la sete di onnipotenza dell’umana e archetipica generazione di uomini esploratori, costi quel che costi.
Ad Astra attinge al meglio visivo dei capolavori di sempre: atmosfere rarefatte (Gravity), pieni e vuoti, densi di riflessioni (2001 Odissea nello spazio), sonorità ansiogene (Interstellar), violente creature sperimentali (Alien), orizzonti multiformi (Star Wars), realistiche fantasie che sembrano verità (Star Trek).
Tra una meraviglia e l’altra regna la solitudine del guerriero. Padre e figlio, entrambi segnati da un’irrequietezza con cause conclamate. Capaci di servire l’umanità, di mantenere meccanicamente l’autocontrollo terapeutico, aiutati da forzate e immaginifiche sale relax, ma anche di superare, alla bisogna, le regole della vita.
Un film profondo, emozionante, che cattura ogni fragilità umana in un sunto universale che appartiene al cinema, non solo di fantascienza. Un’opera matura, stimolante, senza risposte e con tante domande che strigliano l’uomo contemporaneo, divoratore di universi. Lo spazio è Dio, materia, infinito ma anche e soprattutto fuga.
Applausi convinti per James Gray, misurato campione di un genere per lui nuovo, Brad Pitt, minimale, disorientato e commovente nella sua ricerca disperata di senso, e Tommy Lee Jones, istintivo, devastante, inumano nel suo ostinato distacco dal mondo e dalle relazioni.
C’è molta vita vera nei sogni spaziali di Gray.