Si respira una sofferenza pacata e composta, un raccoglimento denso di tacita venerazione in questo affresco della Cappella Bardi – presso Santa Croce a Firenze – che rappresenta Le Esequie di San Francesco.
La maturità formale e pittorica raggiunta qui da Giotto dopo esperienze come quella degli Scrovegni a Padova, si documenta nel perfetto equilibrio di rapporto tra le masse, nella solennità dell’impianto scenografico, nei delicati cromatismi tutti giocati su diverse tonalità.
Seguendo una procedura che gli è congeniale, Giotto – da esperto narratore – sceglie di raccontare il fatto pur non accontentandosi di esaurire nel fatto stesso la propria intenzione comunicativa. È per questo che, senza ostentarlo, decide di far risaltare certi particolari da lui considerati più significativi; ed è proprio nell’evidenziarne con discrezione il peso che sta la sua capacità di trasmettere – utilizzando il linguaggio pittorico – un messaggio potentemente religioso.
Sembra che Giotto voglia costringere chi guarda ad accorgersi che nulla c’è di casuale nel veder radunati, intorno a Francesco morto, personaggi che “contano”: notabili del luogo, rappresentanti della vita pubblica, ricchi e nobili, clero e laici. Persino una parte dei frati – lo statuario nucleo collocato sulla destra dell’affresco – è colto nell’atteggiamento di un’ingessata ufficialità.
E tuttavia un simile formalismo, che mal si addice alla figura umile del poverello di Assisi, lascia intatta e splendente nella sua dinamica compiutezza, l’energia amorosa che l’evento di questa morte sprigiona.
Nei volti, negli sguardi, nelle posture dei frati stretti attorno al corpo di Francesco, si riverbera infatti una devozione tenera e appassionata come per un padre, per un amico, per un santo. Alla tua luce, Signore, vediamo la luce (cfr Sal 35,10b) sembrano sussurrargli mentre, proni su di lui, ne baciano le membra segnate dalle stimmate e ne venerano il corpo che, mentre si offre umiliato dalla morte, già vive il riscatto della sua regale dignità nella gloria degli angeli in cielo.
Proprio sul cielo si apre infatti la zona superiore dell’affresco, quasi a suggerire che non si poteva circoscrivere in un ambiente chiuso l’ultimo saluto di Francesco al mondo. Utilizzando la soluzione dei due archi a tutto sesto collocati alle estremità destra e sinistra dell’opera, Giotto introduce nella stanza il cielo che, squarciandone l’orizzonte perimetrale, crea lo spazio di un immaginario eppur reale prolungamento nella dimensione dell’Eterno stabilito dalla persona stessa di Francesco, mediatore dolcissimo tra Dio e gli uomini.
Nel contesto pittorico riecheggiano così le parole di Gesù: Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo (cfr Gv 1,51b).
L’analogia con Cristo è dunque manifesta: e non solo per l’impianto formale dell’opera che richiama inequivocabilmente quello del Compianto sul Cristo morto agli Scrovegni, ma perché Francesco stesso viene considerato da tutta quanta la tradizione cristiana Alter Christus. Assimilandolo totalmente al sacrificio della croce, Giotto sottolinea di lui la sovrana energia che scaturisce da quella radicale povertà che ne ha tramato la vita e che domina ora nella testimonianza di trasparente letizia che anima il volto dei frati nel momento, pur doloroso, del supremo distacco.
Insiste Giotto sull’analogia Cristo/Francesco, offrendoci un nuovo più suggestivo riferimento scritturale: nel gesto di un alto prelato, rappresentante della chiesa istituzionale, riecheggia infatti l’incredulità dichiarata dell’apostolo Tommaso cui Cristo, già risorto, rivolge l’invito a stendere la mano e a metterla nel suo costato, per non essere più incredulo, ma credente (cfr Gv 20,27). Mentre gli astanti sembrano ignorare questo gesto, Giotto sceglie al contrario di fissarlo, quasi a voler richiamare che proprio il bruciore per quella ferita aperta può finalmente sciogliere la dura scorza di un cuore sinceramente pentito.