Lo avevano previsto praticamente tutti gli analisti e, almeno in apparenza, sta accadendo. Passate le celebrazioni per il 70° anniversario della Repubblica popolare, spostata l’attenzione mediatica del mondo dalle parate in stile tardo-sovietico e dalle rivendicazioni di orgoglio e grandeur globale di Xi Jinping, ora la Cina potrebbe fare sul serio per chiudere – o, quantomeno, ridimensionare grandemente – la partita in gioco a Hong Kong. Attenzione, quindi, al weekend che si apre oggi. Potrebbe essere uno spartiacque. Che va ben più in là della mera questione delle proteste e divenire, di fatto, un messaggio in codice al mondo da parte di Pechino. Usa in testa.
Con mossa senza precedenti, infatti, ieri la governatrice dell’ex colonia britannica, Carrie Lam, ha invocato la legge di emergenza nazionale, di fatto l’introduzione di quella marziale, al fine di giungere immediatamente al bando sulla possibilità di travisarsi nel corso dei cortei. Tradotto, basta maschere (passamontagna ma anche anti-gas) a proteggere il viso e l’identità di chi scende in strada. Totale riconoscibilità. E, quindi, totale possibilità di essere perseguiti in maniera differita. Formalmente, solo un estremo ma legittimo ricorso a metodi speciali per fronteggiare una situazione che ormai sta andando fuori controllo. Ma, si sa, di questi tempi nel mondo di normale c’è poco.
Da giorni l’Iraq è tornato a bruciare, manifestazioni hanno infiammato le strade del Paese e già reclamato 35 vittime. L’Afghanistan è andato al voto avvolto nel fumo delle autobombe. L’Iran è sempre nel mirino di Usa, Arabia Saudita e Israele. Infine, Recep Erdogan l’altro giorno è tornato a parlare della necessità di instaurare una nuova “zona cuscinetto” in Siria, lasciando intendere che il suo non si limiterà a restare un wishful thinking ma potrebbe essere a breve seguito da fatti concreti e unilaterali. In punta di carri armati. Ecco, quindi, che Hong Kong diventa qualcosa più di un problema di ordine pubblico: Hong Kong diventa l’esempio, la punta di diamante di una stagione di “autunni social globali”, risposta più ad ampio spettro alle “primavere arabe” che tanta parte hanno avuto nel rinfocolare le tensioni mediorientali e nel rigenerare il mostro del fondamentalismo islamico armato, Isis in testa.
Non a caso, tutta la grande stampa internazionale sta con i ragazzi che protestano per le strade dell’ex colonia, senza alcun distinguo, senza nemmeno un velato tentativo di presa di distanza dalle violenze sempre più sistematiche e qualificanti delle manifestazioni: è un “tutti contro la Cina”, capitanato come al solito dall’Economist. Bruttissimo segno. Perché questi apprendisti stregoni della destabilizzazione globale in nome della democrazia o presunta tale, ogni qualvolta hanno sposato una causa, l’hanno portata e sostenuta fino alle estreme conseguenze. Salvo poi abbandonarla nell’oblio, una volta ottenuto il loro scopo parallelo. E signori, quelle proteste raccontate con malcelato e acritico entusiasmo dai media occidentali, stanno facendo davvero danni. Sempre più seri.
Questo grafico ci mostra il trend delle vendite al dettaglio a Hong Kong in termini di valore nel mese di agosto (picco del turismo internazionale e interno), tracciato da Goldman Sachs: -23% su base annua, il calo maggiore di sempre. Un record. Pesantemente negativo. Su base mensile, agosto ha segnato un -12,5%, dopo il -5,2% di luglio.
Insomma, non solo una stagione turistica gettata in fumo, ma qualcosa di più profondo. Molto più profondo. Che Pechino, giunta a questo punto, non può più tollerare. Politicamente, prima ancora che a livello economico. Ancorché i numeri siano terribili: la vendita di gioielli e orologi ad agosto ha segnato un -47,4% dopo il -24,3% di luglio, abbigliamento e calzature -32% dopo un -13%, mentre le vendite nei centri commerciali hanno registrato un -29,9% dopo il -10,4% di luglio. “La situazione ad Hong Kong è un disastro, pressoché per tutti”, si è fatta sfuggire Miuccia Prada con Bloomberg nel corso delle sfilate di moda a Parigi. Quindi, pagano tutti. Non solo la Cina. E, infatti, cali consistenti delle vendite hanno colpito anche marchi europei come Swatch, Cartier, Moncler, Hugo Boss, Lvmh, Hermes, Burberry e appunto Prada, tutti accomunati da cali sugli indici in cui sono quotati. Ma attenzione, perché come vi dicevo la questione è paradossalmente più politica che di mera contabilità economica. E lo confermano questi due grafici, il primo dei quali ci mostra l’esponenziale crescita delle ricerche web legate a Bitcoin e altre criptovalute compiute nell’ultimo periodo da utenti del web residenti a Hong Kong.
Ed ecco arrivare il vero nodo della questione, sostanziato dal secondo grafico: le fughe di capitali da quello che, di fatto, è ancora l’hub finanziario della Cina, la porta d’ingresso e d’uscita verso Occidente dei capitali stranieri e delle negoziazioni. Parlando a una conferenza ad Amsterdam la scorsa settimana, un guru come Kyle Bass, fondatore dell’hedge fund Hayman Capital Management, è stato chiaro: “Hong Kong rischia di dover affrontare un declino economico molto severo. Temo – ma sono quasi certo – che un sostanziale ammontare di capitale lascerà o cercherà di lasciare l’ex colonia britannica nei prossimi 12-18 mesi. Occorre essere chiari, il futuro economico-finanziario di Hong Kong a oggi rappresenta un gigantesco punto di domanda. La situazione delle riserve monetarie nel corso del mese di ottobre ci dirà molto delle dinamiche future sul breve e medio termine”.
Insomma, se Pechino vuole evitare sgradevoli effetti palle di neve, deve intervenire ora. Anche perché il secondo grafico, elaborato da Bloomberg su dati di Goldman Sachs, parla chiaro: dall’inizio delle proteste di massa a fine agosto, 4 miliardi di dollari sono già fuggiti da Hong Kong in direzione di Singapore, visto sempre più come hub finanziario alternativo delle regione. Soltanto nel mese di agosto e su base mensile, il calo dei depositi – un proxy delle fughe di capitali – ha toccato il massimo record, -1,6%. Nulla di irreparabile, per ora. Ma un trend che occorre essere invertito subito, attraverso anche l’invio di un messaggio poco ortodosso come quelli che si è letto fra le righe dell’invocazione di leggi speciali fatto ieri da Carrie Lam.
Insomma, attenzione a Hong Kong, già a partire da questo fine settimana. La situazione ha infatti raggiunto la prossimità del punto di non ritorno, da più di un’angolazione prospettica: Pechino potrebbe avere voluto alzare la posta, minacciando la legge marziale. Ma, d’altro canto, questa sua mossa potrebbe essere vista dai manifestanti come l’atto che porta con sé la necessità di alzare il livello dello scontro. Soprattutto se la tua sacrosanta protesta per democrazia e diritti individuali viene utilizzata, sobillata, sponsorizzata e indirizzata da soggetti esterni con finalità tutt’altro che limitate alla rivendicazione di condizioni minime di agibilità politica nella ex colonia.
Qualcuno sta “cercando” una nuova Tienanmen? A questo punto, non mi sento più di escluderlo. Anzi. Attenzione, però, alle conseguenze. La Cina, infatti, non è il Maghreb. E certi Dottor Stranamore potrebbero trovare pane per i loro denti.