La Reserve Bank of India (Rbi) ha tagliato recentemente di 25 punti base i tassi d’interesse nella sua quinta riduzione del 2019 (il precedente intervento, un ribasso di 35 punti base, era stato deciso in agosto) e il Monetary Policy Committee ha confermato ancora la posizione di politica monetaria accomodante fino a quando sarà necessaria per rilanciare la crescita (garantendo, nel contempo, che l’inflazione rimanga all’interno dei target), ma la Fed sembra sempre meno incline a sottostare ai richiami all’ordine di Trump, che la vorrebbe pronta a tagliare aggressivamente il costo del denaro.
Jerome Powell ha ricordato, parlando a margine di un film che ricorda il precedente presidente Marriner Eccles, che la Banca centrale deve essere “absolutely free” dalla politica. Nell’Eccles Building della Fed, che prende il nome proprio da Marriner Eccles, c’è una targa che Powell ha voluto citare: “La gestione di una Banca centrale deve essere assolutamente libera dai pericoli del controllo dei politici e degli interessi privati, dei singoli o combinati”. Insomma, il messaggio per Trump, e indirettamente anche per i mercati finanziari, è stato forte e chiaro: i tassi scenderanno solo se le condizioni dell’economia lo renderanno necessario.
Al di là delle buone notizie su possibili accordi tra Stati Uniti e Cina, gli Usa sono riusciti già a portare a termine uno dei tanti accordi commerciali sui quali stanno lavorando. Il 25 settembre era stato, infatti, perfezionato un accordo parziale tra Stati Uniti e Giappone da 40 miliardi di dollari sul commercio digitale, un accordo che apre anche il mercato giapponese a 7 miliardi di dollari circa di prodotti agricoli americani e che dovrebbe diventare operativo a gennaio. Non sono invece state liberalizzate le quote per le importazioni di riso, una soluzione che soddisfa i risicoltori giapponesi, una base consistente del consenso del premier Shinzo Abe.
Questa intesa preliminare getta la basi per un accordo bilaterale di libero scambio molto più ampio del quale dovrebbero beneficiare entrambe le parti. Il Giappone esporta auto negli Usa per 51 miliardi di dollari (un terzo del commercio del made in Japan verso gli Usa), è quindi evidente che sia attento a non indispettire il partner commerciale sul fronte delle merci agricole, caro invece a Trump, che in quel settore dell’economia ha uno zoccolo duro di sostenitori.
Nei primi otto mesi del 2019, secondo i dati dello U.S. Census Bureau (l’ente statistico di Washington), l’export di merci dalla Cina agli Usa è crollato del 12,5% annuo, pari a 43 miliardi di dollari in meno rispetto allo stesso periodo del 2018. La guerra commerciale che Donald Trump aveva lanciato contro Pechino stava dunque mostrando i suoi effetti sugli scambi tra i due Paesi.
Il primo a beneficiarne è stato il Messico (secondo maggior partner commerciale di Washington), che ha visto crescere del 5,5% il suo export in Usa, ed è evidente anche l’apprezzamento dello yen, che dai massimi di aprile 2019 a 112,40 yen per dollari circa è sceso sugli attuali valori di 106,50/107,00 yen per dollaro.
Forza della moneta, tuttavia, in questo caso non significa forza dell’economia: l’indice anticipatore del Giappone è calato in agosto, ultimo dato disponibile, a 91,7 punti dai 93,7 punti della lettura finale di luglio, contro i 91,8 punti attesi dagli economisti. Il dato si attesta sui minimi dai 90,5 punti segnati nel novembre 2009. L’aumento dell’Iva dal 1° ottobre dall’8% al 10% (ma non sugli alimentari) potrebbe frenare i consumi interni, che invece attualmente sono il motore dell’economia (il Giappone ha circa 126 milioni di abitanti) e comportare un’entrata in recessione tecnica, almeno temporanea, eventualità non necessariamente negativa, dal momento che potrebbe stimolare un aumento della spesa pubblica e l’adozione di nuove misure accomodanti da parte della Bank of Japan.
Due anni fa l’Iva era aumentata dal 5% all’8% e anche in quel caso c’era stata una ricaduta temporanea in recessione dopo l’adozione dell’imposta maggiorata dovuta agli acquisti anticipati effettuati prima dell’aumento, ma in questa occasione il governo si è attrezzato meglio, alzando ad esempio le pensioni più basse o mettendo in cantiere opere pubbliche nel settore della prevenzione del rischio sismico, l’effetto dovrebbe quindi essere minore in termini di intensità e di durata.
L’Ocse nel suo ultimo Interim Economic Outlook ha comunque rivisto al rialzo le attese per l’economia giapponese per il 2019, portando il tasso di crescita atteso all’1% dallo 0,7% stimato a maggio, mentre per il 2020 è stata confermata l’ipotesi di crescita dello 0,6%. Per fare un confronto, nello stesso report l’Ocse stima un Pil pari a zero nel 2019 per l’Italia e pari allo 0,4% nel 2020 (era +0,6 nelle previsioni di maggio).
Se, da un lato, può essere vero che l’apprezzamento dello yen dovuto alle tensioni commerciali tra Usa e Cina ha messo pressione anche sulla Borsa giapponese, caratterizzata da una presenza rilevante di aziende esportatrici (che subiscono quindi il doppio danno del cambio sfavorevole e del rallentamento degli scambi a livello globale), dall’altro è vero anche che il rafforzarsi della moneta giapponese si trasforma in un vantaggio per l’investitore in euro che decida di comprare strumenti correlati direttamente a quel mercato (la componente cambio gioca in favore del compratore di attività in yen).
Negli ultimi mesi la tendenza dello yen rispetto all’euro è stata di deciso rafforzamento: dai massimi di un anno fa circa a 133,10 yen per dollari agli attuali 117,50 circa (11,5% di apprezzamento). Il trend al ribasso, favorevole allo yen, si è interrotto in area 115,80 a inizio settembre (quando la Borsa Usa ha iniziato a rimbalzare), la flessione successiva non ha negato il tentativo di ripresa precedente, che tuttavia non aveva a sua volta superato resistenze rilevanti.
La situazione attuale vede, quindi, un rallentamento del trend di rafforzamento della moneta giapponese su quella europea, una tendenza che però per il momento resta attiva. Solo oltre la media mobile esponenziale a 100 giorni, passante a 120 circa, quindi allineata con i massimi di settembre, potremmo avere segnali in favore del proseguimento del rialzo grafico del cambio euro/yen (e indirettamente anche un segnale favorevole al rafforzamento della Borsa, sia americana sia giapponese). Discese sotto i 115,50 yen segnalerebbero invece la fine del rimbalzo e la ripresa della tendenza ribassista.
Il Nikkei 225 ha un andamento abbastanza simile a quello del cambio euro/yen. Come già accennato, la Borsa giapponese tende a indebolirsi nelle fasi di yen in recupero e viceversa guadagna terreno con il cambio in crescita grafica, un comportamento “difensivo”, se visto nell’ottica dell’investitore europeo, che puntando sul mercato azionario giapponese dovrà accontentarsi di un rendimento reale netto inferiore a quello nominale per gli acquisti di strumenti legati all’indice di Borsa nelle fasi di crescita, dal momento che il cambio sarà un fattore penalizzante, ma che al tempo stesso potrà godere di un rendimento reale superiore a quello nominale nel caso l’azionario andasse incontro a un calo: in questo caso, infatti, la probabile rivalutazione dello yen sull’euro limiterebbe i danni.
Volendo tradurre queste considerazioni in strategia di investimento, si potrebbero ipotizzare acquisti alla rottura dei 22.360/22.370 punti di Nikkei, consapevoli del fatto che in quel caso l’euro/yen potrebbe spingersi verso 122,50/123,00 almeno. Le posizioni si potrebbero mantenere fino in area 21.000, limite al di sotto del quale, pur potendo sperare in un robusto apprezzamento dello yen, il calo della Borsa diverrebbe troppo esteso per mantenere le posizioni aperte.