Com’era prevedibile la clamorosa sortita di Carlo De Benedetti su Gedi non si è rivelata un semplice scatto di cattivo umore domenicale da parte di un finanziere in ritiro. Nell’intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera, l’Ingegnere ha non solo confermato le intenzioni di riappropriarsi di Repubblica, ma ha anche delineato un percorso i cui esiti potenziali vanno oltre la riorganizzazione del gruppo Gedi.
De Benedetti ipotizza infatti a nascita di una “fondazione” entro cui stabilizzare la nuova proprietà e governance del quotidiano dopo una fase di ristrutturazione. Vi si vede in filigrana, anzitutto, l’interesse per il solo quotidiano storico della sua scuderia: prospettandone lo sganciamento da Gedi, dove rimarrebbero La Stampa, Il Secolo XIX, altre testate locali e radiofoniche. Le tecnicalità finanziarie di uno spin-off sarebbero naturalmente tutte da verificare: a seconda della scelta della via della vendita oppure di altri percorsi societari.
Oggi Repubblica è un “ramo d’azienda” di Gedi, società quotata in Piazza Affari. L’azionista di maggioranza (43%) è la Cir, anch’essa quotata in Borsa ancorché controllata in maggioranza dai tre fratelli De Benedetti. Altri soci rilevanti di Gedi sono Exor (holding della famiglia Agnelli, 6,9%), Jacaranda Falck e la famiglia Perrone, entrambi con il 5%. È a Cir che – domenica pomeriggio – De Benedetti Sr ha proposto l’acquisto del 29,9% di Gedi al prezzo corrente di Borsa. Un’offerta chiaramente “dimostrativa” nel suo appeal finanziario nullo e nell’esclusione dei soci di minoranza e di mercato da una possibile Opa. Lo stesso Ingegnere non ha fatto mistero di voler frenare trattative di vendita intavolate “con il fondo Pensinsula e con Marsaglia”, cioè con l’ex manager di Mediobanca che ha fondato il fondo di private equity.
Ma De Benedetti non ha solo voluto bloccare i figli Rodolfo e Marco, a suo modo di vedere “privi di passione per l’editoria”. Ha enunciato un percorso apparentemente basico, ma in realtà già ricco di implicazioni sullo sfondo della crisi epocale dell’editoria giornalistica in Italia. Non è un caso che l’Ingegnere abbia lamentato sia la netta perdita di valore del titoli in Borsa, sia – alla sua base – il crollo delle aspettative di redditività: e lo ha fatto per un gruppo – Gedi – che finora si è difeso meglio della concorrenza nazionale. Lui pure, tuttavia, non riesce a non fischiare – di nuovo – una “fine della ricreazione”.
La media industry dell’ultimo trentennio – inaugurato proprio dalla “guerra di Segrate” che vide la nascita del gruppo Espresso-Repubblica com’è stato fino alla fusione con Itedi – è finita, sembra dire l’ingegnere. Non è più un business profit-oriented sostenibile. Non lo è per un gruppo tradizionale di scala nazionale europea. L’editoria giornalistica resta “una passione”: per chi la promuove, per chi la produce, per chi la consuma, per tutti gli stakeholder esterni, per la democrazia stessa, per mantenere la biodiversità rispetto ai giganti digitali apolidi. Ma la “passione” – civile, politica, eccetera – va condotta in forma di no-profit. E da un lato è evidente che un quotidiano gestito da una fondazione e non più da una Spa quotata vada ripensato in profondità sul piano organizzativo e gestionale. Questo – tuttavia – per un finanziere-imprenditore in servizio permanente come De Benedetti è essenzialmente un’opportunità e una sfida. Tanto più che anche il contesto esterno è in rapida evoluzione.
Non solo in Italia i giornalisti – ovunque alle prese con tagli e licenziamenti imposti dalla globalizzazione tecnologica e dalle ondate recessive – invocano con più forza un’attenzione dei poteri pubblici per la libertà di stampa (se ne sente l’eco anche nell’ultimo comunicato dei giornalisti di Largo Fochetti: “Repubblica non è e mai potrà essere considerata come una qualsiasi azienda, oggetto di trattativa fra imprenditori che se la contendono sul mercato, bensì è un soggetto politico culturale ed editoriale fra i più rilevanti del Paese: dunque appartiene non solo a chi ne ha la proprietà azionaria, ma pure alla comunità dei suoi lettori e alla sua Redazione, da sempre garante dell’integrità e della libertà dell’informazione prodotta ogni giorno su tutte le piattaforme”). Ma è un tema cui il nuovo sottosegretario alla Presidenza con delega all’editoria – il dem Andrea Martella – si è subito mostrato sensibilissimo: archiviando gli Stati generali aperti dal predecessore Vito Crimi (M5S) e impostati su una dura confrontation con editori e giornalisti sugli aiuti al settore.
Con Martella vi sono pochi dubbi, ad esempio, sul ripristino dei controversi aiuti a Radio Radicale, Avvenire, Manifesto. E sono tornate realistiche le aspettative di sostegni straordinari al settore: anzitutto nel favorire staffette generazionali fra giornalisti old e nativi digitali. L’obiezione principale mossa da Crimi nel Conte-1 era comunque: perché il Governo deve finanziare gruppi privati, quotati in Borsa, controllati da potentati finanziari? La “fondazione Repubblica” è una prima reazione attiva: perché il Governo non dovrebbe finanziare (anche attraverso agevolazioni fiscali a ristrutturazioni e conferimenti) i nuovi soggetti sussidiari dell’independent journalism?