Un titolo di Repubblica, ieri, ha dato tout court del “cialtrone” a chi sta criticando alle spalle Mario Draghi, in uscita dalla Bce dopo otto anni nella trincea dell’eurozona, a difesa di tutti i suoi Paesi membri. Un’espressione forte, inusuale per un grande quotidiano d’informazione; anche se probabilmente non del tutto fuori luogo.
Certo, è una prima volta. Lo stesso quotidiano e lo stesso commentatore non si erano mai azzardati a insultare in modo così sanguinoso governanti e tecnocrati del Nord Europa, al contrario. Otto anni fa – quando lo stesso Draghi co-firmò l’austerity imposta da Ue, Bce, Francia e Germania, tuttora alla radice della lunga crisi italiana – la stampa nazionale in coro incitò Europa e mercati a “fare presto” a togliere di mezzo il “cialtrone-a-prescindere” in carica allora a Palazzo Chigi: Silvio Berlusconi. E nessuno ha mai lontanamente dato del “cialtrone” a Mario Monti, la cui pedissequa applicazione delle direttive europee – supposte tecnocratiche, in realtà già allora politiche – ha iniziato ad avvitare la spirale negativa di Pil, occupazione, conti pubblici, stabilità, bancaria dalla quale il sistema-Paese è tuttora soffocato.
Anche due mesi fa, in occasione di una crisi di governo parecchio “cialtrona” negli sviluppi e negli esiti, al centro degli attacchi politico-mediatici si è ritrovato un “cialtrone-a-prescindere”: il leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini. Il quale chiedeva “pieni poteri” (costituzionali e programmaticamente sanciti da una verifica elettorale, ndr) principalmente per realizzare una manovra finanziaria molto diversa da quella approvata due notti fa. Un progetto di legge di stabilità che nessun commentatore è riuscito a promuovere e neppure ad assolvere; anche se nessuno ha mostrato l’onestà intellettuale di bocciarlo come “cialtrone”.
Salvini voleva una politica economico-finanziaria espansiva, che liberasse le poche risorse disponibili dal reddito di cittadinanza assistenzialista e investisse sulla manifattura, sul lavoro autonomo, sulle infrastrutture indispensabili a sostenerli. Voleva attuare l’autonomia rafforzata in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna come ulteriore boost per le aree-traino dell’Azienda-Paese.
Avrebbe certamente chiamato la Ue a un confronto duro sul presente e sul futuro degli accordi di Maastricht, dopo anni di austerity para-tecnocratica a circolo vizioso (è stata anzitutto la recessione ad aver mandato oltre la linea rossa il rapporto debito/Pil, ad aver affondato il sistema bancario italiano, ad aver zavorrato la competitività industriale).
A Salvini non è stato consentito di assumere la guida democratica del governo: è stato invece trattato da “cialtrone” in Senato da un premier non eletto, trasformista, privo di qualsiasi competenza comprovata nel ruolo. E per giustificare il “ribaltone” i media hanno preannunciato che la Ue con il Conte riasciacquato dal Pd sarebbe stata molto più generosa che con il Conte salviniano. A distanza di poche settimane lo strillo della flessibilità al 3% si è rivelato una puntuale “cialtronata”. Cosa peraltro non difficile da prevedere visto il declino “cialtronesco” della stessa governance europea.
A Bruxelles la neo-presidente tedesca della Commissione, Ursula von der Leyen – la “sant’Orsola” invocata da Romano Prodi – non entrerà in carica alla data prefissata e non mancano pronostici di una bocciatura che sarebbe senza precedenti. Già quattro mesi fa, comunque, in Consiglio Ue non aveva potuto contare sull’appoggio del capo di governo del suo Paese, il “cancelliere d’Europa” Angela Merkel. Von der Leyen era stata di fatto nominata dal presidente francese Emmanuel Macron: in cambio dell’approdo al vertice Bce di Christine Lagarde (avvocato d’affari a Wall Street, politico a Parigi, tecnocrate a Washington, senza esperienza come banchiere centrale). Ma il leader designato a Bruxelles ha rischiato di non superare neppure il primo esame presso il nuovo europarlamento: è stata salvata da un voto di scambio negoziato – a quanto si è inteso poi in via parecchio personale – dal premier italiano che già preparava il ribaltone a Roma.
Con quale epiteto – più o meno rude – è possibile qualificare questa Europa? Quella che ha visto bocciata a Strasburgo per sospetta mancanza di requisiti etici la candidata commissaria francese Sylvie Goulard: cui Prodi e Monti hanno offerto in agosto la tribuna finale a Ventotene, nel nome di Altiero Spinelli.
Su questo sfondo, la pensosità dei commentatori italiani sulla manovra è apparsa ben sintetizzata da un titolo “a pelo di sabbia” della Stampa: “Una manovra che non guarda alla crescita”. Il corsivo è stato firmato da Carlo Cottarelli, il funzionario del Fmi che per una mattina è stato candidato premier tecnico dopo il voto del 2018. Cottarelli che, probabilmente, avrebbe potuto far parte del Conte-2, ma ha opportunamente preferito lasciare il posto all’europarlamentare “marziano” Roberto Gualtieri: già ribattezzato “ministro delle Smentite” da Repubblica, poco prima di passare a titoli più sanguigni.
Lo stesso Gualtieri, ieri non si comunque smentito. Si è fatto intervistare dal principale quotidiano economico nazionale, ma invece di commentare la manovra ancora fresca d’inchiostro, ha prospettato una palingenetica “riforma del fisco”. Mentre il suo premier comunica con il Consiglio dei ministri da lui presieduto ormai principalmente attraverso accorate letterine d’auspicio.
PS. Una riflessione politico-economica specifica sembra imporsi sempre di più all’ampio mondo cattolico, il cui contributo di idee e di opere nella società italiana è stato centrale in un secolo e mezzo di unità del Paese e in particolare in 73 anni di democrazia repubblicana. La tensione – condivisibile e condivisa – nella lotta alle diseguaglianze ha come direzione concreta la costruzione di un’Italia “povera”? Un’Italia supposta “felice” in quanto il principio di eguaglianza fissato dall’articolo 3 della Costituzione sarebbe realizzato dalla convergenza di tutti gli italiani verso l’impoverimento? La pura e semplice redistribuzione della ricchezza data è davvero la priorità assoluta e lo strumento da privilegiare nella politica economica? Non lo è la ricostruzione di un’Italia certamente più equa ma anzitutto di nuovo capace di produrre ricchezza nella competizione globale? I cattolici italiani si sentono davvero in consonanza con forze politiche che confermano il reddito di cittadinanza al Sud e cancellano la flat tax per le (piccole) partite Iva al Nord? Con partiti che appesantiscono la cedolare secca sui canoni concordati, cioè arretrano sulla politica sussidiaria per la casa fatta sul mercato dai corpi intermedi e non dallo Stato con i ghetti della vecchia edilizia popolare?