Matteo Renzi ha il pregio di parlare chiaro. Chiudendo la decima Leopolda ha reso evidente a tutti quale sia l’orizzonte dell’operazione politica giallorossa, di cui è stato il principale artefice ad agosto: eleggere un presidente della Repubblica europeista e non di centrodestra. Si tratta senza dubbio di un appuntamento cruciale, ma da cui ci separano ben 27 mesi. Un’eternità per i ritmi sincopati della politica. E la distanza temporale rende incomprensibili le fibrillazioni che scuotono il governo.
Intendiamoci: il disegno di Renzi è chiaro e lucido. Stoppare Salvini e il “sovranismo” diventa la priorità numero uno di tutti i suoi avversari, che non a caso si sono coalizzati per dar vita all’attuale esecutivo. Quella di indirizzare in un certo modo la scelta del successore di Mattarella diventa la madre di tutte le battaglie. Il problema, viene da aggiungere, è arrivarci avendo evitato l’autodistruzione, o quantomeno la consunzione della coalizione oggi al governo.
Del fatto che i tempi siano lunghi è sembrato consapevole anche lo stesso Salvini, che sabato dal palco di Piazza San Giovanni ha parlato della necessità per l’area moderata di studiare per evitare gli errori del recente passato gialloverde. “Studiare, incontrare e valutare”. E dietro ciascuna di queste parole si nasconde una serie di nodi da sciogliere: sui rapporti europei, le relazioni internazionali, le scelte di fondo in campo economico. Insomma, sull’idea di Paese.
Salvini a Piazza San Giovanni ha dovuto archiviare i sogni proibiti di autosufficienza, e rispolverare il vecchio centrodestra. Ha dovuto dare spazio sul palco a Giorgia Meloni e persino a Silvio Berlusconi, perché sa che non potrà permettersi di marginalizzare nessuno, specie se si dovesse andare davvero verso una riforma della legge elettorale in senso proporzionale. A quel punto da solo non riuscirebbe mai a governare. Avrebbe un disperato bisogno degli alleati, nessuno escluso, degli elettori moderati in particolare.
È qui, al centro, che si gioca la partita degli equilibri futuri. Lo ha confermato lo stesso Renzi, che ha invitato i delusi di Forza Italia a “dare una mano nell’interesse del paese”. Un modo chiaro per indicare come oggi il partito berlusconiano sia il grande malato del sistema politico italiano, ridotto ai minimi termini nei sondaggi, ma ancora proprietario di un brand decisivo. Speculare la richiesta della Meloni, che pungola sia Salvini che Berlusconi per firmare un patto anti-inciucio per dire sia mai più governo con i 5 Stelle, sia mai più governi con il Pd.
Ma se sono chiari tanto l’orizzonte temporale, quanto lo scontro al centro, assai meno chiaro risulta il clima di guerra permanente in una maggioranza che dovrebbe far durare la legislatura sino al gennaio del 2022, quando scadrà il mandato di Mattarella. Difficile immaginare che ci possa essere un incidente fatale durante la discussione di questa legge di bilancio, ma il clima di guerra permanente non può che logorare il quadro politico. Clamoroso sabato è stato lo scatto di nervi di Giuseppe Conte (uno che gioca una partita in proprio, e forse qualche notte si sogna al Quirinale). Gli è scappato un “chi non fa squadra è fuori dal governo” talmente ultimativo da doverlo correggere con ben due note informali. Persino Di Maio è parso sorpreso e infastidito.
Nicola Zingaretti è stato chiaro: “o si organizza un campo alternativo, o consegneremo il paese a Salvini”. Pd, 5 Stelle e Italia Viva non hanno quindi alternative, se non far diventare un’alleanza stabile la convergenza agostana per dar vita al nuovo governo. Altrimenti finiranno con l’annullarsi fra loro.
Il banco di prova saranno le elezioni regionali, otto da qui a metà 2020. Data per persa l’Umbria, lo schieramento giallorosso si gioca il tutto per tutto il 26 gennaio in Emilia (e Calabria). Non sarà facile, visto che Bonaccini non ha intenzione di farsi da parte, così come altri governatori democratici uscenti, come De Luca ed Emiliano, ma un rosario di sconfitte regionali sarebbe fatale per il piano “Quirinale 2022”.