Il mito del libero mercato può essere declinato in molti modi. Per molti imprenditori agire liberamente significa manifestare una certa insofferenza per le regole interne ed esterne, che vengono viste come un limite intollerabile allo sviluppo. Seguire un percorso di crescita privo di ogni ostacolo è quanto ci si augura e ogni processo o procedimento imposto all’impresa viene letto come una intollerabile intromissione.
In realtà, solo le regole creano un ambiente produttivo efficiente ed in grado di offrire all’impresa uno sviluppo certo e duraturo. Come spiegato da Giorgio Vittadini nel suo intervento al 7° Salone Mediterraneo per la Responsabilità Sociale di Napoli, le imprese si dividono in tre grandi agglomerati, da questo punto di vista. Il primo comprende quelle che sono compliant con le normative nazionali ed internazionali e rappresentano in genere sul mercato realtà solide in grado di competere all’estero e pronte a cogliere i frutti del lavoro con maggiore efficacia. Nella seconda fascia ci sono quelle che ci provano a seguire le regole, con risultati non ancora soddisfacenti, e che in genere in questo guado rischiano, se non convinte e pronte, di restare al palo; infine, vengono le imprese che vivono le regole della compliance come un elemento estraneo e allogeno ma che, secondo le statistiche, sono ad un passo dall’essere espulse dal mercato stesso e quindi dal finire la propria corsa.
Un imprenditore avveduto sa, quindi, che le imprese devono essere gestite secondo i principi di adesione alle norme in materia di sicurezza del lavoro, dei rispetto delle regole sull’antiriciclaggio e della privacy e che se si doterà di processi e procedure di gestione cha impediscono la commissione di fatti illeciti alla propria impresa, secondo i principi della responsabilità degli enti sancita dal D.Lgs. 231/01, avrà una struttura in grado di competere sui mercati con maggiori chance di mantenere le proprie posizioni se non addirittura di incrementarle.
Questa strada pare abbia convinto anni addietro, seppur timidamente, il legislatore, che introdusse lo strumento del rating di legalità come meccanismo per misurare quanto un’impresa aderisse a determinati principi di compliance collegando timidi benefici nel rapporto con il ceto bancario. Ora si da il caso che molte imprese del Mezzogiorno non siano ancora pronte a questo ragionamento e che molti imprenditori si pongano in maniera scettica sul tema della compliance, della quale vedono, a modo loro e non scientificamente orientato, solo i fastidi e non le opportunità.
In realtà la strada è segnata. Sempre più aziende di grandi e medie dimensioni adottano sistemi di procurement che valorizzano come elemento essenziale, in alcuni casi, o preferenziale in altri, il fatto che il potenziale fornitore sia dotato di una struttura aderente alle norme e che sia quindi, almeno prospetticamente, più affidabile. La crescita di valore che un’impresa che rispetti le norme ha, quindi, rispetto a chi le ignora, è direttamente proporzionale al valore dei mercati che è in grado di aggredire. Nel Mezzogiorno che ancora non abbraccia questo percorso convintamente, molte “eccellenze” di fatto rischiano di restare fuori progressivamente dal mercato per la propria incapacità ad abbracciare questo percorso, diventando prima subfornitori non qualificati ed infine meri soggetti estranei.
Quel che serve è che questo percorso di crescita virtuosa coinvolga le imprese del Mezzogiorno invogliandole ad avere un proprio rating di legalità che rifletta un’organizzazione efficace e che faccia dell’aderenza alle norme un proprio valore. Se a questo si unisse una scelta a costo zero per la le amministrazioni pubbliche ovvero incentivare, e premiare anche in sede di aggiudicazione delle commesse, le imprese che adottino modelli di gestione per la prevenzione dei rischi e che siano dotate delle dovute certificazioni e del necessario rating di legalità, la propulsione sarebbe tale e tanta da incentivare un percorso di crescita complessivo del sistema imprenditoriale.
Molte imprese del Mezzogiorno, stimolate e seguite, potrebbero provare ad entrare nella seconda categoria delineata da Vittadini, ovvero tra quelle delle imprese che cercano di adeguarsi con convinzione, puntando ad entrare nella prima e diventare eccellenze ma evitando, soprattutto, che restino nell’ultima e finiscano per sparire.