Non è ancora chiaro in che misura il Governo in carica in Italia possa fregiarsi del titolo “del cambiamento”, ma è evidente che si troverà a fare con “l’Europa del cambiamento“. Le istituzioni europee stanno mutando foggia e atteggiamento sia in quanto i leader che hanno contrassegnato gli ultimi anni della loro attività (il Cancelliere Angela Merkel, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e il Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi) escono di scena (gli ultimi due) e sono appannati (la Cancelliera; si veda la lunga analisi di Jochen Bittner sull’ultimo fascicolo di Die Zeit), sia per un cambiamento di importanza relativa tra le istituzioni.
Il Parlamento europeo ha acquistato una nuova centralità. Ha approvato con una maggioranza molto risicata (ed essenzialmente grazie al voto dei parlamentari italiani del Movimento 5 Stelle) la nomina di Ursula von der Leyen a Presidente della nuova Commissione, ma sta tenendo in scacco il completamento dell’organo collegiale e non ha dato la propria approvazione a ben tre dei candidati proposti dai Governi nazionali e, dopo una serie di colloqui dalla stessa von der Leyen. Ciò non ha a che vedere solo con il maggior ruolo che vuole avere il Parlamento.
Dopo le elezioni del maggio scorso, i due partiti tradizionali (popolari e socialisti-democratici), che avevano il 54% dei parlamentari nella legislatura precedente, hanno in totale il 45% dei seggi (una perdita di 76 scranni); non disponendo della maggioranza assoluta, devono scendere a patti con altri gruppi (definiamoli “non tradizionali”) sui singoli provvedimenti – siano essi normativi o approvazione di nomine). Ciò induce anche gruppi europarlamentari relativamente piccoli a vendere a caro prezzo la loro alleanza, anche temporanea su singole misure. L’esito complessivo è che “sovranisti” ed “euroscettici” pesano molto di più di quanto dicono i loro seggi al Parlamento europeo; hanno, infatti, il potere di maggioranza.
La nuova Commissione, ancora non in carica, appare molto più debole delle precedenti (sin da quella presieduta da Walter Hallstein subito dopo la ratifica del Trattato di Roma). Ciò non solo per l’accresciuto ruolo del Parlamento, ma perché si presenta come una compagine non bene assortita con europeisti-federalisti come Paolo Gentiloni sia “europerplessi” vagamente sovranisti come Olivér Várhelyi. Inoltre, nell’ultimo anno una parte importante delle sue competenze in materia di monitoraggio (e azione) sulle politiche di bilancio e sul debito pubblico è stata, quasi silenziosamente e senza far rumore, trasferita dalla Commissione all’European Stability Mechanism (conosciuto come Fondo salva-Stati) istituito nel 2014, ora con 180 dipendenti e a cui è stata affidata la responsabilità della valutazione della sostenibilità dei debiti pubblici e la gestione di fondi per impedire che, in caso di serie difficoltà di uno Stato, vengano “contagiati” altri il cui debito è, invece, sostenibile. Nel’Esm, frutto di un accordo intergovernativo, solo Germania e Francia hanno potere di veto.
Cambiamenti anche alla Bce dove Christine Lagarde ha preso il posto di Mario Draghi. Due profili professionali molto differenti. Draghi è un economista, giunto alla Bce dopo una carriera accademica in cui ha lavorato a lungo sugli aspetti macroeconomici delle aspettative razionali, è stato consigliere di ministri del Tesoro e della Banca d’Italia, ha rappresentato l’Italia nel Consiglio d’amministrazione della Banca Mondiale, direttore generale del Tesoro prima di arrivare alla guida della Bce. Un percorso da public servant, interrotto solo da un breve periodo in una banca d’affari privata internazionale.
Christine Lagarde, invece, è una giurista, avvocato d’affari e di formazione in gran misura americana, entrata relativamente tardi nella vita politica e nel settore pubblico, quando nel 2005 è diventata, prima ministro del Commercio con l’Estero, poi ministro dell’Agricoltura e della Pesca e, infine ministro dell’Economia, dell’Industria e dell’Occupazione. Ruolo da cui è giunta alla guida del Fondo monetario internazionale in un momento in cui il vertice dell’istituzione (occupato da un ex ministro suo compatriota) versava in una grave e inattesa crisi. A Washington, si è interessata soprattutto degli aspetti organizzativi dell’istituzione, lasciando agli economisti la cura degli aspetti più prettamente economici. Ha guidato il Fmi negli anni in cui la comunità internazionale usciva dalla crisi iniziata nel 2008; anni in cui le dimensioni giuridico formali erano particolarmente importanti.
Christine Lagarde si è rivelata molto abile nella ricerca del consenso nel Consiglio d’amministrazione del Fmi. Draghi non ha esitato ad annunciare politiche e misure innovative (come il Whatever it takes) anche se membri influenti del Consiglio della Bce avevano, e manifestavano, opinioni difformi. Con Lagarde alla presidenza ci si deve attendere una maggiore consensualità e collegialità nella Bce. All’ultima sessione del Consiglio della Bce, almeno 7 dei 24 componenti si sono espressi contro la nuova fase di Quantitave easing; tra essi i rappresentati di banche centrali di peso, come quelle della Francia, della Germania e dell’Olanda. Pochi giorni dopo gli ex presidenti/governatori delle banche centrali di Austria, Francia, Germania e Olanda hanno preso carta e penna e scritto una nota di dura critica a Draghi per la sua conduzione della Bce. È chiaramente una lettera a nuora perché suocera intenda. Il vero destinatario Christine Lagarde. È ipotizzabile che ascolterà molto di più i “falchi” di quanto non abbia fatto Draghi e che si darà come missione quella di far sì che su politiche, programmi e misure convergano con le “colombe” in compromessi soddisfacenti per ambedue le parti.
Quindi cambiano le “dramatis personae” e le istituzioni. È interessante notare che due economisti della Commissione europea (Lewis Dijkstra e Hugo Poelman) e uno della London School of Economics (Andrés Rodrigues-Pose) abbiano redatto un lavoro ancora a circolazione limitata su «The Geography of EU Discontent» (La Geografia della Scontentezza nell’Ue). È un’analisi dettagliata dei 63.000 collegi elettorali nella Ue a 28 (ossia con la Gran Bretagna): la conclusione è che la scontentezza è particolarmente marcata nei collegi elettorali caratterizzati da declino industriale e disoccupazione.
Viene da chiedersi se “il Governo del cambiamento” italiano ha piena contezza “del cambiamento” in corso in Europa e se la politica economica e finanziaria dell’Italia non dove dare più attenzione alla crescita e meno all’assistenzialismo.