Arcelor Mittal ha annunciato di voler rinunciare alla gestione, ristrutturazione e rilancio dello stabilimento ex Ilva di Taranto. La ragione principale è l’assenza di garanzia per gli amministratori rispetto alle norme ambientali e alle scadenze per l’attuazione della bonifica dell’area. La vicenda è ormai lunga e mostra molte complessità. È certo che quando un’indagine ha messo lo stabilimento Ilva al centro di un’indagine penale per reati ambientali era ancora una fabbrica che produceva utili e migliaia di posti di lavoro. Da allora si sono succeduti interventi della magistratura e della politica che non sono mai divenuti definitivi e hanno provocato solo incertezze continue.
Il partito della chiusura, o della fuoriuscita dall’industria dell’acciaio nazionale sta vincendo ai punti. Ma il modo con cui ci si avvia a rinunciare a un ruolo nazionale nel mercato mondiale dell’acciaio avviene in modo così maldestro da essere un segnale negativo per tutto il nostro sistema economico. Dopo che Arcelor Mittal dovesse veramente gettare la spugna e andarsene causa la mancata garanzia della esistenza di un diritto, come potremo chiedere ad altri gruppi stranieri di venire a investire in Italia?
Ricordiamo, solo per dovere di cronaca, che nell’arco degli ultimi 12 mesi le norme riguardanti gli interventi ambientali per Taranto e le autotutele garantite agli amministratori sono mutate tre volte. C’è un gruppo industriale che può supportare un’incertezza di questo tipo quando programma di procedere a grandi investimenti per realizzare nuove sedi produttive? Si è giunti a una situazione così pasticciata che, oltre a fare marcia indietro, sarà bene che il nostro Governo proceda a fare le scuse a chi voleva investire a Taranto. Con le scuse ufficiali può darsi che si ottenga almeno un po’ più di credibilità per poi rivolgersi anche ad altri gruppi industriali perché prendano in considerazione l’ipotesi di investire in Italia.
Ricordiamoci che siamo ancora uno dei principali paesi industriali al mondo e che il problema del nostro Mezzogiorno è attirare investimenti. Rinunciare al ruolo di Paese industrializzato e respingere investimenti industriali nel Sud porterebbe al declino dell’economia di tutto il sistema-Paese.
Non contenti di intervenire contro un settore dell’industria tradizionale, i nostri governanti hanno approvato, in questi stessi giorni, una misura a tutela dei riders che rischia di essere un provvedimento boomerang. Come noto, il lavoro organizzato e gestito tramite le piattaforme è una fattispecie di difficile inquadramento. È parzialmente un lavoro subalterno e parzialmente un lavoro autonomo.
Il lavoratore sceglie quando mettersi a disposizione e quando interrompere. Quando si attiva è coordinato e organizzato dalle informazioni che arrivano dal sistema della piattaforma informatica. Mezzi di locomozione, sicurezza, ecc. sono a suo carico. Il ricavo è a cottimo in funzione del numero di consegne effettuate. È evidente che la situazione di incertezza su salario, salute e sicurezza non poteva restare tale e che a una soluzione generale si doveva arrivare. I due estremi sono però quelli di una soluzione contrattuale che rispetti i diritti del lavoratore (autonomo o dipendente poco importa), ma non diventi ostacolo a una nuova forma di relazione economica e di lavoro. La strada scelta è stata invece quella di operare con un intervento restrittivo sulla definizione di collaborazione coordinata e continuativa che riduce tutti i lavori che utilizzavano questa forma contrattuale a lavoratori dipendenti.
La norma introdotta, pensata a tutela di una categoria di lavoratori, rischia di essere dannosa per il settore con conseguente perdita di posti di lavoro e inoltre danneggia anche i lavoratori in co.co.co di altri comparti produttivi. È evidente che chi sta operando le scelte sul mercato del lavoro ha un deficit di esperienza lavorativa. Sempre più emerge una flessibilità che riguarda l’organizzazione delle imprese, della produzione e quindi della vita lavorativa delle persone. Invece di intervenire adattando tutele e diritti alla nuova realtà produttiva si interviene ingessando i rapporti economici e di lavoro col risultato di rendere più difficile fare impresa e creare lavoro.
A tale decisione improvvida vi sono però due scappatoie. Una è di generalizzare il ricorso alla partita Iva per i lavoratori che intendono restare autonomi e l’altra è un contratto sindacale nazionale che regoli in modo diverso da quanto fissato nel decreto il rapporto di lavoro su piattaforma. Un sindacato che voglia qualificarsi come 4.0 porterebbe a una le due strade puntando a un unico contratto di categoria che assicuri, sia ai lavoratori che scelgono l’autonomia che agli altri, tutele e diritti equivalenti.
Sarebbe una bella lezione a una politica che non conosce il lavoro e darebbe speranza a chi vive di lavoro.