È durato più di tre ore l’incontro a Palazzo Chigi tra il governo e i vertici di ArcelorMittal, che ha annunciato il ritiro dall’accordo per l’acciaieria ex Ilva di Taranto. “Faremo di tutto per far rispettare gli impegni”, ha detto il premier Giuseppe Conte. L’azienda, intanto, ha avviato le procedure per “restituire” 12 siti e 10.777 dipendenti. L’annuncio ha fatto partire lo sciopero immediato a Taranto, perché, secondo i sindacati, a rischio ci sono ora 4mila posti di lavoro. “In queste ore siamo di fronte all’ultima istanza di appello per il governo Conte”, commenta monsignor Filippo Santoro, vescovo di Taranto e presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro. Non ci sono più possibilità, dopo che la questione, sono sempre parole di Santoro, “è stata gestita con approssimazione e demagogia per troppi anni”. Si è giocato troppo a lungo sul futuro di migliaia di lavoratori e di famiglie, sul futuro di un’intera città, Taranto: “Adesso ci vuole un salto di prospettiva e di lungimiranza definitivo”.
Si può dire che la situazione in cui versa oggi l’Ilva di Taranto sia l’eredità malata di una concezione del lavoro e dell’impresa che per decenni ha ignorato completamente il soggetto umano a vantaggio del profitto puro e semplice?
Certo. È un’eredità maturata sin dai tempi della famiglia Riva, passando poi per l’Italsider. Quando sono arrivato a Taranto, nel 2012, la preoccupazione unica era quella di produrre un buon acciaio, una produzione che era ai vertici in Europa. Non c’era, però, la preoccupazione di un buon rapporto con l’ambiente, avendo cura delle condizioni ecologiche, e soprattutto non c’era un rapporto con le persone e con la città. Si teneva conto unicamente dell’aspetto produttivo, come se l’Ilva fosse un’isola: garantiva sì lo stipendio ai lavoratori, ma questo resta un aspetto parziale.
Cosa intende dire?
Che non c’era un’attenzione alla qualità della vita delle persone, ma solo per la massimizzazione del profitto.
Le responsabilità sono tante. Secondo lei, anche i sindacati si sono preoccupati solo della difesa del posto del lavoro, ignorando di fatto tutto quello che invece ha reso drammatica la situazione dell’azienda?
Durante la gestione dei Riva i sindacati hanno fatto una campagna unicamente aziendalistica, puntando a migliorare la situazione dal punto di vista degli stipendi dei lavoratori. Solo quando, nel luglio 2012, è scoppiato il caso con l’intervento della magistratura, hanno cominciato ad approfondire il rapporto con l’ambiente, le persone, la salute, a coniugare insieme lavoro e salute.
Lei in questi giorni ha pronunciato parole molto decise: “la vicenda è stata gestita con approssimazione e demagogia”. Perché demagogia?
Intendo che durante l’ultima campagna elettorale per le elezioni politiche i Cinquestelle hanno brandito la tesi dell’ambientalismo estremo, la chiusura dell’azienda, lo stop alla produzione, anche se Di Maio in realtà parlava di stop alle fonti inquinanti. Se questo significava migliorare la produzione, poteva essere accettabile, ma dire stop alla produzione è stato il cavallo di battaglia degli ambientalisti estremi. Il risultato è stato che il M5s ha preso a Taranto più del 47% dei consensi.
Poi cosa è successo?
Quando i Cinquestelle sono andati al governo con la Lega, il ministro del Lavoro, cioè lo stesso Di Maio, ha firmato il nuovo contratto e alle ultime elezioni il M5s ha perso oltre il 20% dei consensi. Demagogia, dunque, nel senso di aver usato l’Ilva per un’affermazione politica. Spero che adesso, pur in prossimità di nuove tornate elettorali, si torni a considerare il bene della città e non il risultato in termini di voti.
Come giudica l’operato del presidente del Consiglio Conte in questi giorni?
L’operato di Conte è l’ultima istanza di appello. È necessario un suo intervento che coordini l’attività dei suoi ministri. Il problema è stato il ritiro dello scudo penale, cosa che ha dato un alibi all’azienda per andare via. Adesso Conte si è adoperato per la reintroduzione dello scudo, speriamo basti a calmare le acque, ma in questo atteggiamento equilibrato di Conte ci vorrebbe una visione di futuro, quella che aveva già auspicato San Giovanni Paolo II quando trent’anni fa venne a Taranto, ricordando che era già suonato un campanello d’allarme.
Cosa intende dire con una visione di futuro? Lei ha parlato anche di creatività per risolvere la situazione…
Vuol dire prevedere non il dominio assoluto della siderurgia. Attualmente si producono 4 milioni di tonnellate di acciaio, mi dicono che per farlo bastano 4mila operai e non gli attuali 8.200.
Questo, però, significa perdere posti di lavoro, non crede?
Ovviamente nell’immediato non si può mandare via nessuno, ma bisogna pensare per il futuro a investimenti nel Sud nell’ambito del terziario, dell’agricoltura di eccellenza, delle risorse del mare, del turismo. Prima di dire chiudiamo e licenziamo bisogna preparare il terreno, perché le persone siano occupate in nuovi ambienti di lavoro. Anche proporre una cassa integrazione che duri 10 o 20 anni non è una soluzione dignitosa, è sopravvivenza, perché la persona si realizza nel lavoro. Dobbiamo difendere la dignità della persona, promuovendo forme di investimento che utilizzino le risorse e la bellezza del territorio.
Lei è presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro. Il lavoro sta subendo trasformazioni accelerate e drammatiche in tutto il mondo, a partire dalla cosiddetta rivoluzione 4.0, che fa preoccupare perché preconizza macchinari al posto delle persone. Che parola di speranza si sente di dire per il futuro del mondo del lavoro?
Innanzitutto, un giudizio positivo sull’innovazione tecnologica. L’opera dell’ingegno deve essere usata a favore della persona, fuori da quello che papa Francesco ha definito “il paradigma tecnocratico”, dove la tecnologia e l’economia sono sganciate dalla vita reale, dall’etica, dalla coscienza. Quindi un sì chiaro senza riserva, purché le nuove tecnologie siano messe al servizio di una compatibilità e sostenibilità ambientale.
Non teme, dunque, questi cambiamenti?
La tecnologia è sempre guidata dalla coscienza, anche gli algoritmi sono immessi dall’uomo. Questo esige uno sviluppo, come ricorda il Papa, basato su una visione di ecologia integrale. Si tratta di una preoccupazione educativa: educare ad approfondire qualcosa che dia vita a una dimensione religiosa che sappia curare la vastità di quello che è nell’uomo. Si chiama senso religioso. Coniugare, dunque, questa dimensione con uno sguardo che comprenda anche fedi e culture diverse, e uno sviluppo che, se lo si lascia correre in modo autonomo e sfrenato, produce quel paradigma tecnologico di cui parla Francesco.
(Paolo Vites)