Il tentativo del Governo di attribuire ad Arcelor Mittal la responsabilità di aver disatteso gli obblighi contrattuali previsti nel contratto di cessione dell’Ilva, è francamente un po’ patetico. La tardiva offerta del presidente del Consiglio di ripristinare l’immunità penale per i responsabili del piano di investimento e di bonifica ambientale del sito di Taranto è un’ammissione di fatto della superficialità che ha caratterizzato la gestione della vicenda, culminata con l’approvazione nel mese scorso di un emendamento al decreto salva-imprese, da parte della maggioranza che sostiene l’Esecutivo, finalizzato a escludere tale condizione.
In tempi non sospetti, avevamo sottolineato la sostanziale impossibilità di perseguire l’ambizioso obiettivo di riportare la produzione dell’ex Ilva di Taranto sui livelli precedenti la crisi, circa 8 milioni di tonnellate, nell’arco di alcuni anni, di trasformare tecnologicamente gli impianti e di bonificare l’ambiente del territorio, in assenza di una condivisione sostanziale del compromesso raggiunto da parte di tutti gli attori coinvolti. A partire dall’azienda, dalle istituzioni nazionali e locali e dalla magistratura.
Il clima di tregua armata, e di oggettiva difficoltà a praticare una qualsiasi scelta imprenditoriale in una condizione di incertezza permanente, compresa la possibilità di poter utilizzare una significativa quota degli impianti di produzione in essere, è stato complicato dal consistente calo della domanda di fornitura acciaio che si è verificato nel frattempo come conseguenza della recessione economica e dell’avvento dei dazi. Condizioni che hanno comportato un crescente inutilizzo della capacità produttiva e un calo della redditività del prodotto venduto.
In questo contesto gli impianti di produzione siti in Europa si sono rivelati come i più esposti alle conseguenze negative. Penalizzati da una concorrenza aggressiva da parte dei produttori asiatici che ignorano i vincoli ambientali vigenti dalle nostre parti. E in particolare condizione di difficoltà sono finite le aziende, e i siti produttivi, impossibilitati ad adeguare tempestivamente le loro strategie di produzione e di mercato. Come nel caso dell’ex Ilva di Taranto, attestata attualmente su una produzione di poco superiore al 50% dell’obiettivo massimo ipotizzato, e destinato a ridursi ulteriormente per la fermata di alcuni altiforni ritenuti incompatibili con i vincoli ambientali disposti dalla magistratura.
Affermare, come fa perentoriamente il ministro dello Sviluppo economico Patuanelli, che Arcelor Mittal ha sbagliato il piano industriale, aumenta paradossalmente le responsabilità di coloro che dovevano assicurare certezze al programma degli investimenti, consolidando gli impegni assunti dall’impresa. E non, come avvenuto, fornendo alla stessa degli alibi corposi per l’oggettiva impossibilità di praticarli.
Le responsabilità sono note, principalmente riconducibili all’incompetenza e all’opportunismo abborracciato degli esponenti del Movimento 5 stelle. Ma dal quale non sono esenti i loro provvisori compagni di strada dei due governi recenti, che hanno preferito nascondere la polvere sotto il tappeto per assicurare un provvisorio quieto vivere agli Esecutivi in carica.
Alcuni economisti industriali hanno provato a stimare i danni sul versante macroeconomico conseguenti alla chiusura degli impianti di Taranto. Arrivando a ipotizzare, nel caso più estremo, una perdita superiore all’1% del Pil. Per l’occupazione diretta e l’indotto coinvolti, come noto, vengono messi a rischio 20mila lavoratori e altrettante famiglie con conseguenze su tutte le transazioni commerciali del territorio. Ma anche pensare di recuperare nelle attuali condizioni gli obiettivi originali del piano appare irrealistico.
Il compromesso prospettato da Arcelor Mittal, una sostanziale riduzione dei livelli di produzione finali e del personale impiegato con ulteriori 4mila esuberi, è socialmente indigeribile. L’alternativa prospettata da una parte di alcuni esponenti della maggioranza di aprire un contenzioso con Arcelor Mittal, con relativa richiesta di danni per inottemperanza degli accordi sottoscritti, e di ripristinare l’interlocuzione con la cordata concorrente nella gara di aggiudicazione, Acciaitalia, sembra assai velleitaria. Tale cordata, infatti, non esiste più, ed è comunque difficile ritenere che nelle attuali condizioni economiche e ambientali, qualsiasi altro imprenditore possa fare valutazioni significativamente diverse da quelle di Arcelor Mittal.
La scelta caldeggiata da alcuni esponenti di Governo di rinazionalizzare l’Ilva, e verso la quale probabilmente si orienteranno gli esponenti del M5s, rischia di essere il peggiore dei mali. Nessuno dei problemi produttivi e ambientali troverebbe risposte. Con un’azienda proiettata verso perdite di 800 milioni l’anno, uno Stato privo di risorse da investire in impianti e in bonifiche ambientali, e vincolato a sostenere comunque il reddito dei lavoratori, le condizioni operative non potrebbero che peggiorare. La vicenda Alitalia insegna. Scaricare le responsabilità e rinviare le scelte per opportunismo politico produce solo l’esito di aumentare i costi economici e sociali degli interventi.