È triste la foto del premier Giuseppe Conte in scarpe sportive all’assemblea degli operai dell’Ilva a Taranto. È deprimente da ogni lato la si guardi. Lo è – anzitutto – perché Conte appare davvero “in scarp de tenis”, canzonerebbe Enzo Jannacci. Ma il premier di un Paese come l’Italia non può e non deve essere neppure per fiction un homeless di periferia. Verso tutti i cittadini in difficoltà – i dipendenti dell’Ilva come tutti i disoccupati, i poveri, gli emarginati – il capo del governo è invece ogni giorno il primo responsabile istituzionale. Andare a Taranto in tenuta casual per dir loro sconsolato che anche lui ha “le tasche vuote” (di soldi e di idee) è una grave mancanza di rispetto personale, ma soprattutto l’ammissione palese di essere unfit al ruolo che ricopre da quasi 18 mesi: pur non essendo stati eletto dagli italiani, e dopo essere transitato da una maggioranza a un’altra.
È d’altronde comprensibile la stanchezza dei 10mila dipendenti dell’Ilva: sembrano chiaramente svuotati di speranza, dopo anni di gioco logorante sulla loro pelle, cui hanno partecipato tutti (industriali italiani e non italiani, politici nazionali e locali, magistrati di ogni ordine e grado). Anche loro, chiaramente, non hanno più parole da spendere quando un premier “in scarp de tenis” s’intrufola un pomeriggio alla loro assemblea: alla fine senza neppure un briciolo di quell’umanità che non faceva certo difetto – anzi – ai balordi della vecchia Milano di periferia. A maggior ragione vien da pensare che è esistita un’altra Italia: pur con gli stessi problemi di politica industriale e di relazioni sindacali. Dove, però, le assunzioni di responsabilità erano diverse.
La vertenza Fiat del 1979-80 è entrata nella storia italiana in tutti i suoi aspetti controversi: dai 61 licenziamenti decisi dal Lingotto per sospetta contiguità al terrorismo, fino alle decine di migliaia di dipendenti messi in cassa integrazione nel passaggio forse più difficile per la casa torinese alla fine degli anni 70. Lo scontro fra Fiat da un lato e Pci-Cgil dall’altro vide in campo i massimi leader: il segretario comunista Enrico Berlinguer tenne un comizio ai cancelli bloccati dai picchetti; quello della Cgil Luciano Lama fu oggetto di contestazioni alle leggendarie Carrozzerie di Mirafiori. L’episodio emblematico di quella stagione resta la discussa “marcia” dei 40mila “colletti bianchi” che appoggiarono una ristrutturazione pesante – anche nel ricorso agli ammortizzatori pubblici – studiata dall’amministratore delegato Cesare Romiti, un ex manager dell’industria pubblica chiamato dalla famiglia Agnelli a salvare la Fiat.
Su quello sbocco i giudizi restano contrastati anche dopo quarant’anni. Chi vi ha visto uno dei kickoff della modernizzazione italiana anni 80, fuori dalla stagflazione e dall’economia consociativa è ovviamente contraddetto da chi vi ha scorto lo start brusco di un neo-capitalismo all’italiana, meno liberista e meno sviluppista di quanto sia stato nella globalizzazione. Ma ripensarci nei giorni dell’Ilva può essere dettato non tanto dal merito di quell’esito (la Fiat ha oggi quasi abbandonato l’Italia industriale, anche se dopo quattro decenni). Può essere interessante rammentare quanto avvenne attorno a Mirafiori (dove i dipendenti erano 92mila) perché tutti allora dissero chiaramente “da che parte stavano”: quali idee avevano su quanto era in gioco e perché le difendevano con tanta determinazione. La democrazia economica, anzi “l’economia sociale di mercato” che non è ancora del tutto superata come manuale di istruzioni della civiltà europea, sono questo.
La foto di Taranto è triste perché – il premier certamente, in parte anche i dipendenti Ilva – tutti si guardano negli occhi senza dire “da che parte stanno”: cosa vogliono, come lo vorrebbero.