Al momento in cui viene scritta questa nota, gli impianti siderurgici di Taranto (chiamati giornalisticamente ex-Ilva) sono al centro dell’attenzione per i complessi problemi giuridici, economici, finanziari, e sociali posti dalla decisione dell’azienda franco-indiana Arcelor- Mittal di fare marcia indietro sul suo investimento per una varietà di motivi. Non credo che in questa sede sia utile aggiungere altri commenti alla vicenda specifica, di cui, peraltro, non si vede una soluzione. Tanto più che le differenze all’interno della maggioranza potrebbero esplodere e portare il Paese a elezioni anticipate la prossima primavera.
Occorre, però, sottolineare che la crisi dell’ex-Ilva è la punta di un iceberg molto vasto e tale da sollevare interrogativi molto profondi: al ministero dello Sviluppo economico (Mise) ci sono circa 160 “tavoli di crisi” (esattamente 158, all’ultima conta, l’8 novembre scorso) che coinvolgono aziende medie e grandi con un’occupazione di oltre duecentomila lavoratori. Gli interrogativi sono se in Italia ci debba essere una politica industriale, se c’è e se è adeguata.
Occorre fare una premessa. In economia ci sono, da sempre, due scuole di pensiero: la prima, alla Hayek, sostiene che la mano pubblica debba astenersi dall’intervenire in settori direttamente produttivi (come quelli dell’industria), il cui sviluppo dovrebbe venire orientato dal mercato; la seconda, alla Colbert (che non era un economista e non scriveva trattati, ma da ministro delle Finanze di Luigi XIV emetteva decreti con cui già alla metà del Seicento orientava le attività produttive in Francia), ritiene, invece, che la mano pubblica debba non solo guidare ma anche intervenire direttamente.
In Italia, un bel saggio recente di Pierluigi Ciocca (Tornare alla Crescita, Donzelli 2018) ricorda che i periodi di maggior sviluppo economico e industriale ci sono stati nell’età giolittiana e nei trent’anni del “miracolo economico”, fasi in cui si garantivano le regole ed un’efficace diritto pubblico dell’economia, le infrastrutture fisiche e istituzionali, e misure mirate solo per le aree depresse. Il sistema cresceva quasi spontaneamente.
Nell’Unione europea e in un mondo caratterizzato da un forte grado d’integrazione economica internazionale – ci si deve chiedere – che spazio c’è per politiche industriali nazionali? In effetti, la “dottrina prevalente” nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza e di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player. Da decenni, la Francia – Patria di Colbert – propone una “politica industriale europea” che, nel rispetto delle regole sulla concorrenza, incoraggi campioni europei tali da superare i confini nazionali e da gareggiare efficacemente con gigantesche multinazionali di impronta americana e asiatica. Due importanti documenti in tal senso, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012, tracciano prospettive e includono proposte concrete in materia. Hanno avuto relativamente poca attenzione in Italia e non sono stati formalmente recepiti in sede Ue, ma sono la cornice intellettuale e di politica economica in cui è nata la fusione Fca-Psa, un chiaro elemento per far sì che il comparto europeo dell’auto possa rispondere efficacemente alla sfida della trasformazione tecnologica e del mercato mondiale.
Pochi anni fa, Franco Debenedetti, che è stato alla guida di grandi aziende, oltre che politico e saggista, ha analizzato gli insuccessi della politica industriale nazionale italiana in un volume dal titolo eloquente: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, 2016. Quasi quarantacinque anni fa, Giuliano Amato, che non può certo essere tacciato di iper-liberismo alla Hayek, nel volume Il governo dell’Industria in Italia (Il Mulino, 1972), caratterizzava l’intervento pubblico nell’industria nel nostro Paese quale impiccione e pasticcione.
Si potrebbe continuare con citazioni e riferimenti. La domanda di fondo è come mai nella vicina Francia si riesce a teorizzare i campioni europei, e anche a facilitarne la realizzazione, mentre da noi si finisce ad attuare interventi impiccioni e pasticcioni alla origine dei circa 160 tavoli di crisi in quel di via Molise, dove ha sede il Mise?
La risposta è in gran misura in Colbert e in Napoleone Bonaparte che ne seguì le tracce e diede un inquadramento più completo alla strategia. In una Francia dove l’industrializzazione tardava a venire, Napoleone creò les grandes écoles perché lo Stato disponesse di un corpo altamente qualificato per valutare e guidare l’attuazione di interventi piccoli e grandi. La tecnocrazia prodotta da les grandes écoles era fedele alla Nation e non cambiava funzione e ruoli a seconda del vento politico del momento. Ancora oggi, La Documentation Française, pubblicata dall’equivalente del Poligrafico dello Stato, diffonde le analisi perché tutti possano giudicarne la qualità. In effetti, quando la crisi del 1929 comportò una forte di intervento pubblico per salvare la finanza e l’industria italiana, Benito Mussolini non si rivolse a un camerata di stretta osservanza e fedeltà, ma a un socialista riformista, che non aveva mai preso la tessera del Partito, come Alberto Beneduce, per porre ordine al sistema.
Torniamo ai circa 160 tavoli di crisi e all’ex-Ilva. Da quello che si sa e si legge sulla stampa quotidiana la tecnostruttura del Mise (buona e mediocre che sia) è stata in pratica estromessa e i dossier sono guidati da un ex-deputato del M5S (non rieletto alle elezioni del 2018) fedelissimo al capo politico del Movimento e sinora non in grado di risolvere una delle 160 vertenze. Spero di essere smentito poiché in tal caso c’è alta probabilità di passare da seconda potenza industriale dell’Ue alla desertificazione dal manifatturiero e alla disoccupazione di massa.