L’immagine di Giuseppe Conte, pugliese d’origine, tra i lavoratori dell’Ilva di Taranto è un fatto inedito. In un contesto in cui, drammaticamente, lavoro e salute sono elementi antitetici, solo il fattore umano può fare la differenza. La presenza del Premier dentro la grande fabbrica introduce questa novità e, a questo punto, anche nuovi spiragli per una vertenza la cui complessità è elevatissima.
Non è elemento da trascurare nemmeno l’esito dello sciopero proclamato dai sindacati: l’adesione dei lavoratori si è concentrata maggiormente nell’indotto e, esternamente alla fabbrica, non vi erano presidi sindacali. Ciò vuol dire che lavoratori e sindacati hanno presente la difficoltà della situazione e, anche, le responsabilità della politica rispetto alla possibilità – remota a parere di chi scrive – che Arcelor Mittal lasci il nostro Paese.
La nazionalizzazione di Ilva, argomento di cui si parla conseguentemente all’annuncio di Mittal di recedere dagli accordi che ha con lo Stato Italiano, è un’idea folle: non solo per gli ingenti costi – si stimano circa 8 miliardi in 5 anni senza considerare la variabile di un possibile risarcimento dei danni -, ma fondamentalmente perché solo l’industria privata è custode di quella sofisticata expertise che è necessaria per guidare la complessità dell’industria e un’operazione ingente come il rilancio di Ilva.
L’accordo tra Governo e Mittal prevede un investimento di 4,2 miliardi di euro e l’impossibilità di licenziamenti fino al 2023, qualunque sia il ciclo economico. Il contratto in oggetto, com’è noto, è stato messo a rischio dalla revoca dello scudo penale, cosa per cui l’azienda ha minacciato il disimpegno e la richiesta di danni – difficilmente calcolabili – allo Stato Italiano.
Nel contratto non vi è espressamente il richiamo allo scudo penale, ma vi è scritto che in caso di mutamenti della normativa ambientale che rendano impossibile l’esecuzione del contratto, dallo stesso si possa recedere. Perché questo è sicuramente un caso di possibile recesso e richiesta danni? Perché lo scudo penale, come abbiamo scritto su queste pagine in tempi non sospetti, c’era già per i commissari straordinari (dal 2015), non è una norma nata per Mittal. Non vi è nessuna logica per cui debba valere per il pubblico (i commissari) e non per il privato (Mittal).
Ecco che ora, dinanzi a questo errore macroscopico della politica, in presenza di un ciclo economico drasticamente cambiato – per via della crisi dell’auto e della concorrenza cinese e turca – Mittal vuole una riorganizzazione: tradotto, 5.000 esuberi. E il Governo, a questo punto, non può chiedere il rispetto degli accordi perché è stato il primo a violarli.
Oggi il sig. Lakshmi Mittal sarà a palazzo Chigi. Secondo indiscrezioni, il piano del Governo dovrebbe prevedere condizioni più favorevoli per la multinazionale, il ripristino dello scudo penale e la possibilità di un intervento a tempo finanziato dello Stato. Due le ipotesi: un maxi-sconto sul prezzo che ArcelorMittal paga per l’affitto e che ha già messo sul piatto per l’acquisizione dell’ex Ilva (1,8 miliardi) e una trattativa per ridurre gli esuberi. Il Governo è costretto a trovare un accordo: oltre alle possibili penali, non possiamo perdere un asset strategico come Ilva e la siderurgia.
Uno Stato moderno è in grado di creare condizioni per lo sviluppo economico e capace di massimizzare il suo “profitto” a favore della comunità sociale. La nazionalizzazione sarebbe un fallimento annunciato, fortuna vuole che i soldi non ci sono. A ogni modo, il Governo sarà necessariamente partecipe della crisi industriale di Ilva che finirà col gravare pesantemente sui conti pubblici.
La soluzione ideale sarebbe quella di arrivare a ottenere una quota del capitale sociale di Arcelor Mittal. Questo avrebbe risvolti interessanti: lo Stato sarebbe così partecipe di fatto del rilancio di Ilva e dimostrerebbe di crederci, si ridurrebbe così la distanza tra fabbrica e comunità tarantina, lavoro e salute sarebbero fattori sempre meno antitetici. E, anche politicamente, M5s e Pd potrebbero crescere il loro consenso attraverso un’operazione con queste caratteristiche. Qualcosa di simile a ciò che fece Obama con la nascente Fiat-Chrysler nel 2009. Gli strumenti ci sono (la Cdp), sono semmai le teste a mancare.
È da vent’anni che si dice che i lavoratori devono essere “imprenditori di loro stessi”. Lo sia anche lo Stato, senza rubare il lavoro a industriali e impresari.
Twitter: @sabella_thinkin