Sono morti nel pomeriggio di ieri, in un agguato dell’Isis, padre Hovsep Petoyan, sacerdote armeno, e suo padre Abraham. Stavano attraversando un tratto di Siria per ispezionare i lavori di restauro della Chiesa di Deir ez-Zor quando la loro auto è stata crivellata da alcuni colpi di mitragliatrice che hanno barbaramente posto fine sul colpo alle vite dei due uomini, ferendone un terzo, il diacono Fati Sano.
La vicenda è rimbalzata subito sui siti internazionali e Daesh ha diffuso un comunicato nel quale mostrava la patente insanguinata del sacerdote, indicando in quell’omicidio una vittoria per il sempre più debole califfato islamico e i suoi addentellati terroristici nel Medio Oriente.
Ma perché è una vittoria uccidere un prete? Il sacerdote è l’incarnazione del fatto che – dentro tutte le calamità e i tormenti dell’umana natura – davvero si può vivere di Cristo, davvero basta solo Lui al cuore dell’uomo. Ridicolizzare i sacerdoti, umiliarli, renderli esseri falsi e doppi, non è altro che un modo per dire che il cristianesimo in fondo è tutta una menzogna. Il prete è il segno più potente della novità di vita che Cristo ha portato nel mondo: come uno sposato esso vive nel tempo, come un consacrato esso non appartiene al tempo, in quanto celibe vive l’amore preferenziale con Dio dentro mille contraddizioni, come pastore, re e profeta egli è chiamato all’esercizio del potere in quanto servizio alla felicità del prossimo e di tutta la comunità.
Daesh intuisce che uccidendo un sacerdote si colpisce a morte una parte del cuore del cristianesimo. Soprattutto in una terra dove la Chiesa ha imparato a non costituirsi parte politica in seno al dibattito interno della nazione, e alla guerra civile, ma ad essere segno di misericordia e di preferenza per tutti, al di là delle strategie e delle tifoserie internazionali.
Uccidere padre Hovsep ha significato uccidere la possibilità stessa di una pace che non sorgesse dalla vittoria di qualcuno, bensì dall’incontro fra tutti.
Importanti lezioni ci vengono dunque dalla periferia del mondo, da un contesto di conflitti e ambiguità che riporta, come spesso accade, i credenti a ciò che è essenziale. Ossia conservare il segno potente del sacerdozio, senza perseguirne nessuna mondanizzazione, come messaggio e profezia per ogni uomo, sposato o in ricerca, ordinato o disordinato nel bene e negli affetti. Preservare il sacerdozio è riannunciare nella carne la vittoria di Cristo sul mondo. E poi concepire la Chiesa come madre degli uomini e non come lobby che difende alcuni suoi precipui interessi, consapevoli che il suo compito non è governare o affermare attraverso la legge ciò che è frutto della fede, bensì contribuire a rendere più umano il mondo e l’ultimo terrorista di questa terra.
La Chiesa, infine, non è mai con qualcuno o contro qualcuno, ma accanto a tutti, nell’incessante richiamo ad accettare la vittoria della croce, che è apparente sconfitta nel nome dell’amore. Padre Hovsep testimoniava tutto questo, tutta quanta questa irriducibilità della fede e del cristianesimo. Ed è per questo che è stato ucciso.
Eppure, anche nella morte, i barbari assassini non hanno potuto sottrarsi al gioco di Dio che ha permesso che questo orrore Hovsep lo vivesse con il proprio padre, morendo da figlio. Un padre con un nome spiazzante: Abraham. Quell’Abramo che, da padre di tutte le tre grandi religioni monoteiste che oggi abitano il Medio oriente, sembra richiamare tutti a una comune appartenenza che ci fa dire che, credendo di uccidere un nemico, i signori del califfato si sono trovati ad uccidere un fratello. Presente in quelle terre per dare la propria vita per molti. Esattamente come avviene da sempre, esattamente come avvenne in una vecchia storia. Di molto tempo fa, o di ieri pomeriggio.