La nazionalizzazione delle grandi aziende come soluzione per le crisi produttive e occupazionali nel nostro Paese è tornata in auge per offrire risposte alle vicende di Ilva e Alitalia. Gli argomenti sono sempre gli stessi: si tratta di salvare asset strategici della produzione nazionale e di offrire soluzioni credibili per l’occupazione. Il ministro Francesco Boccia ha sintetizzato tutto ciò in una dichiarazione: “dove fallisce il mercato, deve intervenire lo Stato”.
Per i casi citati, e per molti altri, la memoria è corta. Buona parte dei guai ereditati dalle aziende in questione hanno a che fare con le gestioni pubbliche delle stesse. Ma la suggestione è fallace soprattutto quando confonde la proprietà delle aziende con il mercato. Pubbliche o private le imprese devono vendere la produzione e i servizi nel mercato e a condizioni di mercato. Ed è su questo terreno che l’ipotesi di nazionalizzare l’Ilva rischia di essere una soluzione peggiore del male. Per quattro principali ragioni che cercherò sinteticamente di rappresentare.
1) Nazionalizzare l’azienda non offre, di per sé, alcuna risposta ai problemi esistenti. Non a quello delle problematiche ambientali, ivi compresa la disponibilità a gestire pienamente gli impianti che viene periodicamente messa in discussione dalla magistratura. Non ai volumi di produzione vendibili con relative conseguenze sul numero degli esuberi produttivi da gestire.
2) Una proprietà pubblica dovrebbe essere dotata di disponibilità finanziarie, per sostenere il piano degli investimenti, le bonifiche ambientali e le perdite congiunturali, non inferiori a 4-5 miliardi di euro, nelle ipotesi più ottimistiche. Risorse che lo Stato italiano non ha.
3) La nuova gestione dovrebbe possedere le competenze per gestire le strategie di mercato e gli asset produttivi, in un contesto internazionale assai diverso dal passato e in presenza di competitor agguerriti. Certo, potrebbe reperirle ricercando dei partner adeguati. Cosa possibile ma, statene certi, alla condizione di mantenere i rischi e le perdite in capo allo Stato italiano (come sta emblematicamente avvenendo per Alitalia).
4) L’ultima, e a mio avviso più importante ragione, è insita nel consenso che la proposta di nazionalizzare l’Ilva riscontra in quasi tutti gli attori in campo: le istituzioni locali, una parte dei sindacati, le associazioni ambientaliste e in genere nella gran parte dell’opinione pubblica, polemicamente avverse tra loro su qualsiasi altra ipotesi di intervento.
Il miracolo è facilmente comprensibile. Tutti questi soggetti vedono nello Stato il ventre molle sul quale scaricare le proprie richieste e aspettative. Un soggetto costretto a gestirle nell’ottica del consenso politico e non dell’efficacia e dell’efficienza degli interventi. Con una sorta di politicizzazione permanente della vertenza dagli esiti facilmente prevedibili e già riscontrati nel passato in situazioni analoghe.
Il tentativo di scaricare tutte le responsabilità della crisi tarantina su ArcelorMittal, allo scopo di depistare l’opinione pubblica sull’assurda gestione della vicenda relativa alla clausola per l’immunità penale per gli interventi di bonifica ambientale, offre un terreno fertile alla costruzione di ipotesi strampalate per il futuro dell’Ilva.
Purtroppo, se una soluzione possibile può essere ancora intrapresa con ArcelorMittal, allo stato attuale dipende non solo dalla volontà del soggetto imprenditoriale, ma soprattutto dalle condizioni che il governo, indebolito dai suoi errori e dalle contraddizioni interne alla maggioranza parlamentare che lo sostiene, può mettere in campo.
La questione di fondo non è aggirabile. Rimane quella di assicurare a un soggetto imprenditoriale solido, e a condizioni ragionevoli di economicità e compatibilità ambientale, la produzione di acciaio nel sito di Taranto.