Uno degli elementi che caratterizzano questo periodo è il diffondersi di sommosse popolari in Stati pur molto diversi tra loro, dalla Catalogna al Cile, da Hong Kong al Libano, solo per citarne alcuni. Molti di questi eventi sono determinati da fattori economici, mentre altri sono principalmente causati da questioni politiche, come la Catalogna con la richiesta di indipendenza da Madrid, o la lotta di Hong Kong per non essere inghiottita definitivamente da Pechino.
Alla base delle dimostrazioni in Libano, che hanno portato a una grave crisi di governo, vi sono entrambe le motivazioni, aggravate da pesanti riflessi geopolitici inevitabili nella convulsa situazione mediorientale. La scintilla che ha fatto scatenare proteste in tutto il Paese è stata l’intenzione del governo di imporre una tassa sulle telefonate gratuite attraverso Internet, per esempio con WhatsApp o Facebook Messenger. Malgrado la marcia indietro del governo, le manifestazioni sono continuate fino a provocare le dimissioni del Primo ministro Saad Hariri alla fine dello scorso mese.
Le reazioni alla tassa su WhatsApp sembrerebbero di per sé eccessive, ma occorre tener conto di una situazione economica sempre più disastrosa, con gravi diseguaglianze tra la popolazione e, come ha spiegato Camille Eid sul Sussidiario, una corruzione estremamente diffusa. Uno scenario di certo non inusuale in Medio Oriente, ma che in Libano è aggravato dal fatto che la corruzione si è sempre più intrecciata con la complessa costruzione istituzionale, fondata sulla ricerca di un equilibrio tra le numerose confessioni religiose presenti nel Paese. Questa complessa costruzione ha permesso la sopravvivenza del Libano anche dopo la sanguinosa guerra civile che ha diviso il Paese tra il 1975 e il 1990, con la partecipazione israeliana e siriana. Questa struttura istituzionale si è però trasformata in un saccheggio delle risorse economiche a favore delle élite politiche e confessionali, a scapito dei normali cittadini.
Le attuali manifestazioni paiono travalicare le divisioni confessionali e dei partiti politici che ne derivano. Le migliaia di libanesi scesi in piazza rappresentano un po’ tutte le varie identità e sembrano voler sottolineare la propria appartenenza alla comune nazione libanese, piuttosto che alle varie fazioni. Potrebbe essere un primo avvio di un lungo processo per superare l’attuale condizione del Libano, simile a un puzzle i cui pezzi trovano difficoltà ad incastrarsi l’uno con l’altro. Un percorso pieno di ostacoli, in cui devono essere superate non solo le ostilità tra le varie parti, ma anche le divisioni all’interno di esse, come quelle che contrassegnano le tre maggiori confessioni: cristiani, sunniti e sciiti.
Queste già notevoli difficoltà sono aggravate dagli interventi esterni, essendo il Libano un crocevia, e una vittima, delle strategie delle potenze regionali, a cominciare dall’Iran e dal suo sostegno al partito sciita libanese Hezbollah. Le milizie di Hezbollah hanno attivamente partecipato alla guerra in Siria, affiancando il regime di Bashar al Assad, leader della comunità alawita, anch’essa sciita. Ciò ha accresciuto i problemi con Israele, peraltro mai risolti dopo le guerre del 1982 e del 2006, che hanno portato al presidio delle zone di confine al Sud da parte di forze dell’Onu, attualmente sotto comando italiano. Nello scorso agosto sono stati abbattuti nel cielo di Beirut due droni israeliani e all’inizio di settembre Hezbollah ha lanciato missili verso Israele, che ha risposto con bombardamenti.
Hezbollah e la sua vicinanza a Teheran rappresentano un problema anche per l’Arabia Saudita, che ha tagliato i finanziamenti al Libano, malgrado la sua disastrosa situazione finanziaria, per timore che ne traesse vantaggio Hezbollah, parte rilevante dell’attuale governo. Anche di fronte alle manifestazioni, Riyadh è rimasta piuttosto silenziosa, dato che la fazione che rischia di essere perdente è proprio Hezbollah, che infatti si è dimostrata contraria alle proteste. Suoi sostenitori hanno infatti attaccato i dimostranti. Tuttavia, molti libanesi non dimenticano il sequestro da parte dei sauditi nel 2017 di Saad Hariri, anche allora premier dimissionario, un imbarazzante episodio di intromissione negli affari interni libanesi.
Infine, rimane irrisolto il drammatico peso dei profughi: il Libano ospita profughi e rifugiati nella misura di un quarto della sua popolazione. Alle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, nel Paese da quasi settant’anni senza che si sia trovata una soluzione, si sono aggiunti un milione e mezzo di siriani. Su questi ultimi le forze politiche libanesi sono divise tra chi sostiene, come il Presidente Aoun, che i profughi siriani potrebbero rientrare in Siria, tramite un accordo con il governo di Assad, e chi respinge un tale accordo, come il premier Hariri.
Sembrano essere passati secoli, purtroppo, da quando il Libano veniva definito la “Svizzera del Medio Oriente”.