“Migranti, ripartono i gommoni dalla Libia. E le ong chiedono un porto sicuro all’Italia”. Così titolava ieri mattina l’edizione on-line di Repubblica. Da un lato, nulla che stupisca. La Libia, oggi come ieri, è dilaniata da lotte di potere intestine che utilizzano il traffico di essere umani sia come fonte di arricchimento, sia come arma di ricatto. Dall’altro, però, stupisce il timing stagionale: l’inverno, solitamente, vede gli sbarchi di massa sparire dall’orizzonte, lasciando spazio ai viaggi con i barchini improvvisati. Pare quasi che qualcuno stia cercando la tragedia “politicamente”, mettendo in mare contemporaneamente 800 persone e con tre navi di Ong nell’area già ampiamente operative e in costante contatto con le nostre autorità, in cerca di approdo. L’ennesimo braccio di ferro, l’ennesimo regalo alla retorica elettorale della Lega.
Perché ci interessa questa notizia? O, meglio, perché dovrebbe riguardarci più del solito? Per la ragione con cui concludevo il mio articolo di giovedì, esortandovi a tenere un occhio decisamente aperto sul Libano, pronto a esplodere. D’altronde che il Medio Oriente sia tornato nell’occhio del ciclone, lo ha confermato sempre giovedì la notizia a orologeria dell’incriminazione per abuso d’ufficio e frode di Bibi Netanyahu, ennesimo elemento destabilizzante nel quadro politico di un Paese andato già due volte alle urne quest’anno senza che si arrivasse alla formazione di un governo. “È un golpe contro di me”, ha tuonato il premier, facendo notare come si tratti della prima volta in assoluto che un primo ministro viene chiamato alla sbarra per reati simili in Israele. E, casualmente, l’atto formale è arrivato proprio nel giorno in cui l’antagonista di Bibi Netanyahu, Benny Gantz, aveva rimesso il proprio mandato, incapace di creare le condizioni per un esecutivo di larghe intese. Di fatto, terzo voto consecutivo alle porte. Con gli antagonisti interni di Netanyahu ringalluzziti dalle notizie e pronti alla resa dei conti con l’ex premier, ormai troppo ingombrante.
L’America come reagirà? E, soprattutto, l’America ha ricoperto un qualche ruolo in quanto sta accadendo, tutto in chiave anti-Trump e in ottica di scontro con il Deep State, visto anche il potere della lobby ebraica newyorchese sulla politica mainstream? Lo scopriremo presto, statene certi. Ma veniamo ora al Libano, Paese che su 4,5 milioni di abitanti accoglie 2 milioni di profughi, soprattutto siriani sfuggiti dalla guerra. Da sempre, Beirut rappresenta un proxy decisivo per gli equilibri del Medio Oriente, non fosse altro perché utilizzato come terreno di gioco per le rese dei conti infinite fra sunniti e sciiti, cui in tempi passati fece da ago della bilancia la Falange maronita, inserendo il cuneo cristiano nelle divisioni geopolitiche. Le guerre, soprattutto quelle che ruotano attorno alla volontà di egemonia iraniana sull’area, toccano sempre il Libano, in maniera più o meno pacifica. E cosa accade, nel silenzio generale?
Da ottobre scorso, il Paese è attraversato da violente proteste di piazza contro la corruzione delle politica, contro il Governo e il mal costume imperante, a fronte delle quotidiane difficoltà della popolazione con il caro vita. Manifestazioni di massa e spesso degenerate in violenze, tali da aver portato alle dimissioni del premier Saad Hariri e alla disperata mossa da parte dei parlamentari del dimezzamento dello stipendio. Il presidente Michel Aoun sta ribadendo da giorni il proprio appello alla calma e al dialogo, ma, nonostante la tregua apparente, la situazione appare quella classica del fuoco che cova sotto la cenere. Con un aggravante: il Libano ora è entrato ufficialmente nel mirino dei mercati, come ci mostrano questi due grafici.
Il primo dei quali parla la lingua di un possibile default disordinato ormai alle porte: 1,2 miliardi di dollari di controvalore di bond che andranno a scadenza il prossimo marzo, infatti, hanno patito un aumento senza precedenti del proprio rendimento a causa delle proteste, passando dal 13% di cinque settimane al 105% attuale. Un’enormità senza precedenti. E la gravità della situazione è certificata da due particolarità: primo, nemmeno la vituperata e cronicamente fallimentare Argentina aveva mai varcato la soglia del 100% su un rendimento obbligazionario in dollari, come mostra il secondo grafico. Secondo, la curva degli yields sul debito sovrano è totalmente invertita, visto che se il prezzo dei bond a scadenza marzo 2020 è di 77 centesimi sul dollaro, quello della carta a scadenza 2021 è addirittura precipitato a 56 centesimi sul dollaro. E con un debito sovrano attualmente a quota 86 miliardi di dollari o il 150% del Pil e con una scadenza obbligazionaria da 1,5 miliardi cui far fronte già alla fine di questo mese, i mercati utilizzano l’impennata fuori controllo dei rendimenti per mandare un segnale chiaro e univoco: o si tenta subito la via di una ristrutturazione di quel debito oppure sarà default conclamato. Ovvero, il caos.
Perché se le manifestazioni di piazza paiono entrate in un momento di pausa, non lo sono le scene di tensione fuori dalle banche, da ormai due settimane presidiate in maniera fissa da poliziotti in assetto anti-sommossa e militari dell’esercito per evitare assalti, ma anche prosciugamenti dei conti correnti da parte dei cittadini spaventati. Ipotesi tutt’altro che peregrina, perché nel suo ultimo report al riguardo, l’Institute for International Finance (Iif), attraverso il suo capo economista, Garbis Iradian, rende noto che a partire dallo scorso agosto il sistema bancario libanese ha perso circa 10 miliardi di dollari in depositi: “Metà di quella cifra rappresenta prelevamenti diretti dai conti, l’altra metà la somma dormiente che si trova già nelle case dei libanesi e fuori dal sistema bancario e di controllo”. Una situazione simile, è chiaro, appare l’anticamera del caos e di una possibile crisi di liquidità e fiducia a brevissimo termine. Di fatto, il Libano rappresenta il più classico degli incidenti in attesa di accadere e lo dimostra la maggior importanza che i detentori e gli investitori obbligazionari danno ai cash prices in dollari piuttosto che ai meri rendimenti.
E attenzione, perché se il calendario sembra dare tempo fino a marzo per trovare una soluzione, passate le festività natalizie il mercato comincerà a prezzare seriamente l’ipotesi anticipatoria di una crisi sociale e politica su larga scala, seguita da un default disordinato. Cosa accadrà alla tenuta del Paese, in una condizione simile? E che fine faranno i campi profughi e i loro circa 2 milioni di abitanti, già costretti a una vita non certo idilliaca, ma, quantomeno, lontana dai pericoli diretti rappresentati da guerra e trafficanti di uomini? Potrà un Paese con le casse vuote e in piena crisi di insolvenza del proprio debito denominato in dollari, gestire una bomba sociale di quel livello? E, più brutalmente, avere ancora denaro sufficiente per mantenere in attività nel minimo sindacale della decenza quei campi di raccolta? Attenzione, marzo è dietro l’angolo, ma il caos potrebbe arrivare anche prima. Perché, giova ricordarlo, l’elemento chiave dell’intero equilibrio della regione, la vera pietra angolare, risponde al nome di Recep Erdogan: uno di cui è meglio non fidarsi, a prescindere. Ma che, terminata la campagna un po’ farsesca in Siria, ora potrebbe essere decisamente tentato di capitalizzare il rischio migratorio del Libano, ricattando ulteriormente l’Unione europea.
Gli sbarchi di queste ore, quelli raccontati dalla cronache di Repubblica, potrebbero essere solo il trailer di un film post-natalizio che potrebbe abbattersi su di noi e sull’Ue intera con il suo spaventoso contenuto di destabilizzazione. E con un’Unione senza guida, né Commissione, la Turchia avrebbe gioco facile nel porre le proprie condizioni, sempre più al rialzo. Attenzione, la bomba libanese sta per esplodere.