Cessata la sfida contro l’Unione Sovietica con la vittoria dell’Occidente, quest’ultimo sembra essere entrato in una profonda crisi interna, a partire dal Paese considerato guida: gli Stati Uniti.
La scelta imposta dalle elezioni presidenziali è stata spesso non facile, dato l’ampio potere che la Costituzione riserva al presidente, sia pure all’interno di un efficace bilanciamento di poteri. Questa volta, tuttavia, l’attuale battaglia elettorale sembra richiamare intrighi da corte rinascimentale piuttosto che un pur acceso scontro all’interno di una moderna democrazia. La candidatura di Donald Trump alla rielezione è infatti minacciata da una procedura di impeachment, in cui l’attuale presidente viene accusato di aver accettato per la sua elezione l’aiuto di una potenza straniera, e nemica, la Russia. Forse si sta dimenticando la lunga tradizione degli Stati Uniti nell’influenzare la costituzione dei governi di altri Paesi, non solo avversari.
Il cosiddetto Russiagate non ha però sortito alcun effetto concreto, ma l’opposizione Democratica ha aperto un altro fronte: l’affaire ucraino. A quanto pare, Trump ha minacciato di tagliare gli aiuti economici all’Ucraina se il presidente Zelenskij non avesse accettato di investigare sulle attività di Hunter Biden. Costui è figlio di Joe Biden, già vicepresidente con Obama e candidato di punta Democratico alle prossime elezioni. Hunter sarebbe stato nominato, nel 2014, ai vertici di una società energetica ucraina, con una elevatissima retribuzione del tutto inadeguata alle sue competenze, proprio perché figlio del vicepresidente Usa. In questo caso, lo scambio di accuse è reciproco. Nel frattempo, il fondatore della suddetta società energetica, un oligarca già ministro dell’Ecologia, è finito sotto indagine per evasione, corruzione e riciclaggio.
Un tempo si sarebbe definita la situazione da “repubblica delle banane”, riferimento non alla giovane e fragile democrazia ucraina, ma alla consolidata democrazia statunitense.
Si potrebbe dire altrettanto della crisi in corso nella più antica democrazia europea, quella britannica. Il percorso di uscita dall’Unione Europea si presentava senza dubbio non facile, ma non tale da mettere a rischio l’intero assetto del Regno Unito, come sembra stia accadendo. Il Paese si ritrova fortemente diviso, e non solo per gli storici problemi posti dall’Irlanda del Nord e dalla Scozia. La stessa Gran Bretagna è divisa, con la contrapposizione verso Londra che ha portato a ventilare la trasformazione della Grande Londra in una città-stato, sul modello per esempio di Singapore, altra importante piazza finanziaria. La stessa monarchia comincia ad essere posta in discussione, con il leader dei Labour, Jeremy Corbin, che si dichiara apertamente repubblicano.
Rimanendo in Europa, la Spagna ha affrontato quattro elezioni in quattro anni e le ultime, all’inizio di novembre, non hanno dato risultati tali da rendere facile la formazione di un governo stabile. Al grave problema dell’indipendentismo catalano si è aggiunto il successo di Vox, partito di estrema destra, costituito cinque anni fa e ora terzo partito spagnolo. Uno spauracchio quello di una destra estrema, o comunque non moderata, che coinvolge anche la Germania, in concomitanza con il progressivo indebolimento dei due partiti storici pilastri della democrazia tedesca: il partito democristiano e quello socialista. Preoccupa in particolare il riaprirsi del divario con la Germania Orientale, dove l’AfD ha sempre più successo e dove anche la sinistra di Die Linke ottiene risultati che sembrano incongruenti con il lascito, non certo positivo, del regime comunista.
Dall’altra parte del Mediterraneo, accanto alle crisi endemiche del Nord Africa e del Medio Oriente, anche quella che sembrava l’unica democrazia di stampo occidentale, Israele, sta vivendo un periodo estremamente difficile. Dovuto, forse per la prima volta, quasi esclusivamente a questioni interne, tra le quali le laceranti divisioni portate dalla progressiva confessionalizzazione di una parte della società. Anche Israele ha affrontato due elezioni nel 2019 e ora rischia una terza tornata, date le difficoltà di costituire un governo. Ciò che è emerso è la inconciliabile divisione tra i partiti che si richiamano ai fondamenti originali di Israele, sostanzialmente laici, e quelli, religiosi e nazionalisti, che propugnano un’immagine esclusivamente ebraica dello Stato. Quest’ultimi, ovviamente, considerano pressoché inammissibile l’esistenza di partiti rappresentativi della minoranza araba, che hanno conseguito invece buoni risultati nelle ultime elezioni.
Per di più, il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato incriminato per corruzione, frode e abuso d’ufficio, accusa che rende vano il tentativo di aiuto di Trump, con la dichiarazione di legittimità degli insediamenti ebraici nei territori che dovrebbero far parte del futuro Stato palestinese. A proposito di non intervento negli affari interni degli altri Stati.
L’elenco potrebbe continuare, ma ciò che già risulta è che la crisi va al di là della semplice politica e rende evidente l’oscuramento delle fondamenta stesse non solo delle democrazie, ma delle società occidentali. Ivi comprese le radici cristiane.