Quando, due mesi e mezzo fa, l’attuale Governo si è formato aveva due obiettivi, uno puramente politico e uno di finanza pubblica. Il primo consisteva nel mettere insieme due forze politiche, opposte l’una all’altra per dieci anni, allo scopo di evitare il ritorno alle urne (perché temevano che la maggioranza parlamentare risultante dal voto del 2018 fosse ormai diventata minoranza nel Paese) e di barcamenarsi sino alla prossima elezione del Presidente della Repubblica nel 2022 per portare al Quirinale persona di loro gradimento. Il secondo contemplava la messa a punto di una Legge di bilancio “di galleggiamento” che avrebbe cercato di accontentare tutte le componenti della variegata maggioranza e di rispettare, più o meno, le regole e i vincoli concordati a livello europeo. A coronare l’inedita convergenza tra forze sino ad allora opposte, chi meglio di un avvocato d’affari, che mette in buona forma giuridica le richieste dei clienti e, quindi, non trova strano passare dalla guida di un’équipe a trazione di destra a una a trazione di sinistra?
L’inedita maggioranza non aveva contezza che gli scogli principali erano di economia reale (la stagnazione e il rischio di una nuova recessione) e in particolare di politica industriale. Al ministero dello Sviluppo economico i “tavoli di crisi” erano aumentati (sino a raggiungere quasi le 160 unità) durante la durata, peraltro breve, dell’Esecutivo precedente, ma non pare che il titolare del dicastero, una volta affidatilo a un suo sodale che non era stato eletto nel 2018, se ne curasse più di tanto. Da mesi, ove non da anni, si paventava il tracollo dell’Alitalia e una fine infausta per il complesso siderurgico di Taranto, ma, a ragione o piuttosto a torto, il Governo in formazione pensava che questi nodi si sarebbero risolti quasi da soli.
Al momento in cui questa nota viene redatta, per Alitalia si è all’ottava proroga del commissariamento e a un’ulteriore infusione di denaro pubblico (ha già avuto oltre 9 miliardi e perde un milione al giorno) e per l’acciaieria di Taranto è appena iniziata una flebile interlocuzione con Arcelor Mittal che vorrebbe lasciare l’impianto (che per il momento ha in affitto), mentre l’Esecutivo vorrebbe che desse seguito al contratto di acquisto, risanamento ambientale e rilancio. Occorre ribadire che i nodi Alitalia e centro siderurgico di Taranto non sono che le punte di un iceberg che coinvolge il manifatturiero italiano.
In effetti, come già sottolineato su questa testata, il Governo pare di non avere un’idea di base su cosa è la politica industriale. O meglio di avere idee e intenzioni contrapposte. Una delle forze di governo nasce proprio all’inizio del Novecento con il sorgere della grande industria e del solidarismo laico e cattolico – ricordate il film I Compagni di Mario Monicelli? – nei confronti di coloro che lasciavano l’agricoltura per entrare nell’industria nascente vista come chiave per lo sviluppo e per il miglioramento, con politiche ben calibrate, per tutti i ceti sociali. L’altra, invece, sorge in questi ultimi decenni all’insegna di una mentalità anti-industriale e di slogan come la decrescita felice e il ritorno alla vita bucolica vista come un’Arcadia dei poeti del Settecento, un’Arcadia ovviamente aggiornata e tecnologica. Queste due visioni non possono che cozzare ed essere la vera bomba a orologeria per la durata del Governo.
Lo scontro è aperto più sul complesso siderurgico di Taranto che su Alitalia. Sull’ex Ilva, oltre a proposte fantasiose di una forza di governo (trasformare gli impianti in un parco dei divertimenti o addirittura in un centro universitario mediterraneo), gli aspetti giuridici sono molto intricati ed è arduo vedere come una trattativa Governo-Arcelor Mittal possa risolverli, senza ristabilire, da un lato, una tutela giuridica all’impresa coinvolta nel risanamento e accettare (in una fase di crisi della siderurgia mondiale) una riduzione della capacità di produzione e, quindi, degli addetti.
Da un lato Arcelor Mittal ha iniziato la partita in modo pesante: una sorta di gioco a ultimatum tra due soggetti in cui uno soccombe e uno ottiene tutto il piatto. Il Governo è, invece, alle prese con un “gioco” che si svolge contemporaneamente su più tavoli (i partiti e i movimenti che sostengono il Governo, le forze sociali, la città di Taranto, la Puglia e via discorrendo – alcuni con una mentalità fortemente anti-industriale). È quindi un “gioco multiplo”. La “teoria dei giochi” ci insegna che si può trovare un equilibrio – in gergo “un equilibrio di Nash” (il matematico protagonista del film di una ventina di anni fa A Beautiful Mind) – su elementi essenziali senza introdurre troppe componenti. Che si rivelano essere sostanzialmente due: introdurre l’immunità per tutte le imprese che operano nell’Aia (l’Autorizzazione integrata ambientale) e sono impegnate nel risanamento di attività compromesse in passato e, quindi, dare certezza del diritto e delle regole; delineare una strategia complessiva per la siderurgia in Italia e il ruolo del polo di Taranto in questo contesto. Ove nel “gioco multiplo” si raggiungesse un equilibrio su questi due punti, il “gioco a ultimatum” sarebbe su un piano “quasi” di parità e si potrebbe entrare nel merito del piano di risanamento ambientale e del piano industriale che Arcelor Mittal, nella certezza del diritto e nelle regole e nel quadro di una politica per il settore, deve attuare. Ricordando, però, che gli equilibri di Nash sono intrinsecamente instabili, come quelli parlamentari.
In questa situazione di debolezza relativa, difficile capire perché non si sia cercato un arbitrato internazionale nell’ambito dell’Icsid (International Center for Settlement of Investment Disputes – Centro Internazionale per il Regolamento delle Controversie sugli Investimenti), come alcuni di noi hanno suggerito. L’Icsid è una camera arbitrale creata nel 1966 nell’ambito del gruppo della Banca Mondiale. Dispone di un segretariato di quaranta persone, a carico della Banca Mondiale, e gli arbitri vengono nominati di volta a volta d’intesa tra le parti; il segretario fornisce elenchi con proposte di arbitri e i loro curricula professionali. Dalla sua creazione, l’Icsid ha risolto circa 450 casi, spesso nel giro di pochi mesi per ciascun caso. Un ricorso all’Icsid toglierebbe la castagne dal fuoco anche alle varie componenti del Governo, che hanno posizioni molto distanti su come trattare il caso.
Il nodo Alitalia è, al tempo stesso, più semplice e più complicato. Più semplice perché la compagnia è tecnicamente fallita da circa due decenni e i vari tentativi di riportarla in vita non hanno mai dato i risultati sperati. Più complicato non solo per il vasto numero degli esuberi (anche nell’indotto), ma anche per il valore simbolico che pare avere assunto l’azienda.
Tanto per l’impianto siderurgico quanto per Alitalia, il Governo pare contemplare nuove forme di supporto pubblico. Da dove prende le somme necessarie? Dal “reddito di cittadinanza” dopo averlo fatto ballare una sola estate?