In tempi di rinnovato femminismo o di nuova attenzione al fatto che le registe fatichino a realizzare, distribuire e far vedere i propri film, un film come Dio è donna e si chiama Petrunya sembra messo al posto giusto nel momento giusto. Perché diretto da una regista, Teona Strugar Mitevska, il cui cinema va scoperto (e infatti il Torino Film Festival l’ha invitata in giuria e le ha dedicato una retrospettiva) e perché mette da parti molti degli schematismi, dei revanscismi che possono apparire facili e superficiali per ragionare su certi temi attraverso il cinema, il suo uso consapevole e ragionato.
La Petrunya del titolo è una donna di 30 anni che non ha ancora risolto molto nella vita. Un giorno decide di partecipare a una cerimonia ortodossa (siamo in Macedonia) durante la quale si getta una croce nel fiume e chi la raccoglie avrà un anno felice: si getta e vince la “gara”, nonostante alle donne sia vietato. Un gesto che sconvolgerà la sua vita e quella della comunità.
Assieme a Emma Tataragic, Mitevska costruisce una commedia nera – o un dramma beffardo a seconda dei punti di vista – in cui la lotta di una donna per il proprio posto nel mondo non è solamente una lotta contro i costrutti sociali e culturali, anche religiosi, di una comunità patriarcale, ma diventa giustamente una lotta inscritta dentro la comunità, che riguarda anche il benessere di quella comunità. Mitevska lo fa attraverso i paradossi e sfruttando al meglio quello che si potrebbe chiamare “sguardo (inteso come tocco, sensibilità) femminile”.
Ovvero la capacità di sfumare, riflettere, costruire per definizione dei personaggi non attraverso l’accumulo o la sottrazione, di non giudicare quasi mai né stabilire schieramenti, ma facendo di ogni personaggio un mondo da capire, anche se entra in collisione con quello della protagonista che a sua volta è tutt’altro che un’eroina, ma sembra un satellite solitario che vuole almeno avere un’identità. Questo sguardo femminile infatti, prima che nella scrittura e nella costruzione del racconto, avvincenti ma un po’ risapute, fa emergere la densità dei personaggi e lavora soprattutto sulla regia, sulla costruzione dell’immagine per dare senso.
Mitevska infatti ragiona in termini visivi sui temi del suo film, ovvero la ricerca di un proprio posto nel mondo di una donna che è senza voce, che non viene vista né ascoltata da nessuno, che non viene percepita, una nullità o un fantasma in una comunità dominata dal retaggio medievale, sa che il ruolo della donna passa dal corpo, dalla voce, dalla presenza negata, dalla percezione distorta. Le inquadrature però, che accompagnano il percorso di consapevolezza di Petrunya, ribaltano il suo status: la bravissima Zorica Nusheva è spesso al centro dell’inquadratura, la riempie con il suo viso e il suo corpo lasciando al margine le figure del potere, magari tagliandone i volti o i corpi, appunto, quelle che dominano i discorsi, le cui voci e le cui parole possono scatenare la pace o la violenza.
Teso e appassionante senza ricorrere a facili stratagemmi, Dio è donna e si chiama Petrunya è un film sulla libertà e la giustizia prima che sulla ribellione, che dietro il suo crescendo ha anche un modo diverso e originale di concepire e strutturare i conflitti (di classe e socio-culturali), che come la sua protagonista, guarda in faccia le questioni che affronta, in modo lucido e ironico, senza cinismo o cattiveria. Con l’intelligenza della ragione e del ragionamento. Con le armi affilate delle immagini e del cinema.