È iniziato il vertice sul clima COP25 che avrebbe dovuto svolgersi a Santiago del Cile, ma che alla fine si tiene a Madrid. Per due settimane si discuterà di come limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi. Gli obiettivi dell’accordo di Parigi, con cui si cercava di limitare l’aumento della temperatura a 2 gradi, sono stati infatti superati in brevissimo tempo. Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) sostiene che con le emissioni attuali la temperatura globale aumenterà di 3,2 gradi. Gli impegni nazionali per ridurre queste emissioni sono insufficienti.
Ci saranno incontri di alto contenuto tecnico, ma anche un confronto ideologico sui modelli di sviluppo più convenienti. Ascolteremo, ancora una volta, Greta Thunberg accusare molti di non essere disposti a cambiare mentre la Terra è in pericolo. Le profetesse, anche quando sono laiche, usano sempre un linguaggio duro e scomodo. Sono necessarie. La situazione è drammatica.
Ciò che non è così necessario, né conveniente, è ciò che Ramón del Castillo definisce una forma di ecologia che ha trasformato la “natura nel nuovo punto focale del mercato della religione e della religione del mercato”. La teologizzazione dell’ecologia non è un fenomeno nuovo. E ora che tutti dobbiamo lottare seriamente per la decarbonizzazione e per la modifica del nostro sistema energetico, ora che dobbiamo discutere con calma sui cambiamenti sociali che questa lotta implica, è necessario, come sottolinea Manuel Arias Maldonado, liberare “la causa ambientale dall’iperideologizzazione”.
Forse conviene riprendere il dibattito di trent’anni fa (non si tratta di un tema nuovo) negli Stati Uniti, nel quale spiccava la figura di Murray Bookchin, l’ecologista sociale ormai scomparso che si ispirava a una matrice libertaria e anticapitalista. Un anno dopo il disastro di Chernobyl, Murray Bookchin ha partecipato a un congresso dei Verdi americani. È rimasto così sorpreso da quanto ascoltato durante quell’incontro da dedicare uno dei suoi libri a fornire una sorta di replica. In quel congresso, infatti, uno dei relatori aveva sostenuto la necessità di “obbedire alle leggi della natura” perché le persone erano la minaccia. Era la stessa tesi che Bookchin aveva trovato in una mostra in un museo di storia naturale che “si concludeva con un’installazione con un cartello sorprendente: l’animale più pericoloso della Terra. L’installazione consisteva in un gigantesco specchio che rifletteva il visitatore umano”.
Boockchin ha denunciato in nome dell’ecologia sociale l’estensione della “ecologia profonda” fondata dall’alpinista Arne Naess e basata sull'”egualitarismo biosferico” per il quale gli esseri umani non hanno più diritto alla vita degli organismi non umani. Il rispetto per la Madre Terra, con questi e altri autori, è stato “caricato di miti biocentrici” provenienti da una credenza buddista e taoista in tale unità cosmica “che gli esseri umani, con tutte le loro peculiarità, vengono dissolti in una forma di uguaglianza biocentrica onnicomprensiva”.
Questa ecologia profonda ha quindi portato David Foreman a sostenere tesi assurde come quella di ridurre la popolazione umana, lasciando via libera alla malaria e alle carestie in modo da compensare la sovrappopolazione. Tutta questa “teologia della natura” parte dal presupposto che ci sia un conflitto intrinseco tra la società e la natura, non un problema causato all’ambiente naturale da uno sviluppo sociale portato avanti male. La crisi ecologica è causata dall’umanità stessa o da un certo modo di sfruttare le risorse (di gestire i metodi di produzione)? La domanda sembra molto elementare, ma a volte è difficile rispondere in base al tipo di discorsi che si sentono. Per l’ecologia profonda i poveri e i ricchi sono ugualmente colpevoli della distruzione della Madre Terra e non c’è modo di fare una politica ambientale che sia, allo stesso tempo, politica sociale. Probabilmente denigrare l’umanità in generale è il modo migliore per sfuggire ai problemi che crea.
La denuncia di Bookchin resta più valida che mai. Egli puntava su un’ecologia meno filosofica e più basata sulla teoria sociale. Erano buoni propositi, ma il pensiero e l’azione non sono separabili. In ogni caso, la sua filosofia ecologica era lucida quando diceva che gli umani non sono una minaccia per la natura perché esprimono “i migliori potenziali creativi” della natura stessa. La nostra modificazione degli ambienti è una “estensione creativa di una natura completamente autocosciente”.
È molto significativo che un libertario americano degli anni ’70 come Bookchin venga a salvarci dall’uguaglianza biocentrica sottolineando la singolarità dell’io, il suo carattere di “natura autocosciente”. Questa disuguaglianza, il nostro essere diversi, non si recupera più come trent’anni fa nelle discussioni di gabinetto. Occorre un’esperienza molto forte, molto distinta, molto evidente di questa disuguaglianza.