Certo, non è un film documentario di Martin Scorsese. Solo Bob Dylan può permettersi il più grande regista americano degli ultimi 40 anni. Bruce Springsteen, all’esordio come regista, lascia intendere che è meglio si affidi a professionisti più competenti. Ma è ugualmente bellissimo. Nella storia del rock nessuno ha mai saputo parlare di sé così onestamente, sinceramente e autorevolmente. Senza fingere, senza nascondersi, dandosi pure dell’uomo cattivo. “Ho sempre fatto del male alle persone che amavo” dice “e ancora mi succede”. E’ l’uomo, l’uomo vero, che parla. L’uomo che sa a guardare a se stesso, agli altri, soprattutto alla vita: “Invecchiando è sempre più difficile, i pesi che non hai risolto diventano pesi spropositati”. Ogni singola parola suona vera e potresti essere tu quello che le dici, che vivi la stessa inquietudine, lo stesso invecchiamento, quando eri giovane e pensavi che invecchiando tutto si sarebbe risolto, chiarito, semplificato. No, non è così: “La vita può essere crudele” dice sommessamente “Abbiamo tutti le nostre ferite, siamo tutti rotti, fisicamente ed emotivamente, nessuno ne esce intatto”. Fanculo a chi vi dice che la vita è semplice, che bisogna godersela, che basta “voler bene”, essere amici. Voler bene un cazzo. Amici un cazzo. La vita è tragica, la vita è un dramma.
C’è una corrispondenza tra te e questo cantante ormai anziano che nessun altro sa esprimere. Siamo uguali, conto in banca a parte, e siamo diversi, ma siamo uomini. Ma normalmente noi ci nascondiamo davanti a queste verità, perché fanno soffrire troppo. Lui ce le sbatte bene sul muso.
“L’anima degli americani è fatta di due elementi: una è quella che vuole fuggire, sempre, cambiare città, donne, lavoro. L’altra è quella che desidera profondamente una comunità, degli amici, un amore per sempre, un luogo fisso”. Ma siamo tutti così in fondo, solo che l’America ci ha fatto toccare questa realtà con mano, in un milione di canzoni bellissime. E’ per questo che, per dirla alla Jeff Tweedy, “La musica m’ha salvato, sono stato menomato dal rock’n’roll, son stato addomesticato dal rock’n’roll, sono stato battezzato dal rock’n’roll”.
Le esecuzioni dal vivo delle canzoni di Western Stars sono cento volte più belle del disco in studio e ti viene da incazzarti, adesso mi tocca comprare un’altra volta le stesse canzoni e buttare nel cesso il disco in studio. O magari glielo tiro in testa al prossimo concerto. Ma lo dice lui stesso, “abbiamo visto come queste canzoni sono maturate, cresciute”. E’ quello che succede solo ai grandi artisti, non a quelli che fanno il karaoke. Le parti strumentali sono più curate, allungate, rifinite, soprattutto il pianoforte e la pedal steel. I suoni orchestrali non infastidiscono come su disco, sono calibrati e aprono un respiro passionevole sulla musica. Sleepy Joe’s Cafè diventa la festa alla Los Lobos appena accennata su disco. E lui canta da Dio ogni parole, e che bello risentire la splendida voce di Patti Scialfa doppiare la sua.
Ad esempio There Goes My Miracle, da quell’orrida porcata che era su disco, diventa una maestosa cavalcata pop di classe immensa.
Poi ci sono quelle immagini di una baracca nel deserto chissà dove, uno di quei luoghi dove Springsteen ama andare a nascondersi quando la vita si fa troppo dura, i cavalli che corrono liberi all’orizzonte, quei primi piani dei un uomo vecchio che fa quasi fatica a parlare, quasi fosse Harry Dean Stanton nei suoi ultimi giorni e nel suo ultimo film. Poi torniamo per il grande finale di Rhinestone Cowboy in quel fienile, “un luogo spirituale, uno spazio pieno di fantasmi e di spiriti“. E ci saluta così, come si salutavano gli uomini antichi, sulla strada verso un luogo santo, quello in cui finalmente saremo a casa per sempre: “Buon viaggio, pellegrino”. Se non se un pellegrino dell’anima, sei un bugiardo falso che inganna se stesso e gli altri. E morirai.