La Corte costituzionale ha bocciato una legge della Regione Lombardia del 2015 che regola, anzi a questo punto regolava, visto che la norma è decaduta, l’apertura di nuovi luoghi di culto. Nel testo non si parla di islam e di moschee, anche se tutti hanno capito che la ratio della normativa era mettere paletti all’espansione incontrollata di locali frequentati dai musulmani, dove si prega sì, ma non solo. Si voleva con ciò tranquillizzare l’opinione pubblica a proposito di un campo che essa ritiene “minato” proprio in senso letterale. L’abrogazione della legge ha suscitato proteste nella Lega. Esse sono comprensibili. Sono però giustificate?
Ritengo che la sentenza della Consulta non sia affatto un inno alla deregulation. Non è che da ora in poi, se un imam o un monaco buddista ha un’ispirazione notturna, può attrezzare un locale a sua scelta a posto di raduno comunitario. Chiede semplicemente ai legislatori di non abusare del diritto. Cioè di dire una cosa all’apparenza, mentre se ne sta pensando un’altra. Disciplinare non può in nessun caso significare rendere impossibile o aleatorio il diritto ad esprimere la libertà religiosa che informa l’articolo 19 della Carta costituzionale. E questo a me pare l’aspetto più rilevante della decisione presa dall’organo sovrano della Repubblica (per intenderci: la Cassazione è la suprema corte; la Corte costituzionale è la sovrana corte). Certo i giudici costituzionali stracciano una legge, ma lo fanno dando rilievo a un concetto di libertà religiosa straordinariamente positivo. Essa non è solo libertà di confessare una fede, ma suppone il dovere dello Stato e degli enti pubblici di favorirne l’espressione di culto collettivo. Culto vuol dire catechismo, educazione, scuola ispirata dal proprio credo. Insomma: la Consulta afferma la dimensione sociale e non solo privata della fede.
A me tutto questo pare avere forti implicazioni interne ed esterne. Internamente significa la valorizzazione della libertà di educazione non solo formale ma sostanziale. Scuole, giornali, associazioni culturali. Sul piano europeo implica un contributo alla dottrina giuridica fin qui assai restrittiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo. In questi ultimi anni la libertà religiosa alla Cedu è stata intesa come secondaria rispetto alla nozione di laicità dello Stato, si tende ad ammetterla come fatto rigorosamente privato, e in Francia e Gran Bretagna non è accettato che si possa esprimere il proprio credo neppure nell’abbigliamento.
Questa sentenza, e la concezione di diritto che suppone, offre un contributo nei rapporti tra l’Italia e gli Stati dove la libertà religiosa è compressa (repubbliche e monarchie islamiche soprattutto, ma anche l’India), proponendo una lettura dinamica e attiva della libertà religiosa; apre alla possibilità di un dialogo giuridico e diplomatico che spinga ad allargare gli spazi per i cristiani e le chiese, proponendo una reciprocità di regole.
Prendiamola così: la Lombardia è censurata non perché pretende di organizzare e disciplinare, anche in funzione della sicurezza pubblica, il culto di qualsiasi religione, ma perché, invece di regolare la libertà religiosa, di fatto la comprime, vincolandola all’arbitrio dei comuni. Il punto dolente è questo: invece di riconoscere un diritto, lo si subordina al ghiribizzo dell’autorità amministrativa. Insomma è giusto prevedere zone minime di parcheggio, telecamere di sicurezza, servizi igienici, eccetera. Ma quando si autorizzano i sindaci a valutare il permesso solo se il loro comune ha predisposto un “piano per le attrezzature religiose”, senza che si preveda l’obbligo per le amministrazioni locali di predisporlo, allora è evidente che si è davanti a uno strapotere che travolge come una slavina l’art. 19 della Costituzione.
Resta certo aperta la questione della concezione che gli islamici hanno della moschea: essa per sua natura è anche di fatto ambito politico-ideologico. Ed è bene che lo Stato – dati i precedenti ancora rilevati in questi giorni, e tradottisi in espulsioni di imam fondamentalisti – stabilisca leggi che tutelino sicurezza e pace sociale, evitino la propagazione dell’odio e dell’antisemitismo, impediscano la trasformazione notturna di macellerie in ambiti di predicazione sovversiva. Prima però va affermata la libertà, che non va compressa con l’alibi che poi c’è chi ne abusa.
Eccolo. Art 19: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.