Questa stagione 2019-2020 il Teatro alla Scala ha scelto Tosca di Giacomo Puccini come opera inaugurale in linea con l’orientamento del direttore musicale Riccardo Chailly di rivalutare l’opera italiana dei primi decenni del Novecento presentando edizioni filologiche. Tosca non necessità di essere rivalutata; è una delle opere più rappresentate al mondo, anche se l’edizione di riferimento non è quella del debutto.
Infatti, il 14 gennaio 1900 è considerato come un punto di svolta nella musica italiana; il vero inizio della musica del Novecento e soprattutto del dramma di musica di stile italiano. È la data del debutto di Tosca di Giacomo Puccini su un libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica in quello che allora si chiamava il Teatro Costanzi ed è ora parte del Teatro dell’Opera di Roma. Fu un grandissimo trionfo ed ebbe implicazioni di lunga durata per il teatro in musica, non solo in Italia, ma anche altrove. Plasmò, ad esempio, il teatro d’opera negli Stati Uniti e influì su quello di numerosi Paesi europei. Fu anche forse la penultima opera in cui Puccini trovò un libretto all’altezza della sua bravura; l’ultima è a mio avviso Il Trittico, in particolare i due atti (Suor Angelica e Gianni Schicchi) di cui fu librettista Gioacchino Forzano.
Tosca non ha bisogno di presentazione. L’opera è uno dei cavalli di battaglia di Giacomo Puccini, nonché uno dei drammi di musica più messi in scena in tutto il mondo. La trama si sviluppa in un unico giorno ed in una data precisa (14 giugno 1800) intorno alle informazioni fuorvianti che raggiunsero Roma sull’esito della battaglia di Marengo durante la campagna napoleonica per conquistare l’Italia. A quel tempo, la comunicazione lasciava molto a desiderare; nel pomeriggio, giunse a Roma la notizia che Napoleone era stato sconfitto e vennero organizzate celebrazioni un po’ in fretta per ringraziare Dio e la coalizione anti-francese. Era quella che oggi è chiamata una fake news. Nella tarda notte, arrivano le informazioni corrette: la coalizione era stata battuta e Napoleone era in marcia verso Roma. Durante queste ore, il sadico capo della polizia romana Scarpia tenta di violentare la cantante Floria Tosca, che è innamorata del pittore liberale (e volterriano) Mario Cavaradossi. Tosca pugnala e uccide Scarpia, ma Cavaradossi viene fucilato da un plotone di esecuzione degli uomini di Scarpia. La protagonista disperata si getta nel Tevere.
Il recensore storico del Washington Post, Paul Hume, ha chiamato Tosca “un dramma di sangue e budella”. Commento ingiusto, perché l’opera è piena di innovazioni musicali che hanno segnato la storia della musica e ancora affascinano il pubblico: un arazzo sinfonico con i temi chiave in buca, declamazione melodiosa che sfocia in arie, ariosi e soprattutto duetti, un ottimo equilibrio tra orchestra e palcoscenico, ritmo veloce teso dell’azione.
Nelle messe in scena di questi anni, gli eventi sono spesso spostati a tempi recenti, soprattutto a quelli del fascismo (ad esempio, negli allestimenti di Jonathan Miller, Peter Sellars, Robert Carsen e Pierluigi Pizzi). Nel 2015, il Teatro dell’Opera ha presentato una produzione di Tosca come quella allestita il 14 gennaio 1900. Ha avuto un grande successo ed è entrata in repertorio: ogni anno viene rappresentata 15-20 volte fuori abbonamento. Al Teatro alla Scala i due ultimi allestimenti sono stati firmati rispettivamente da Luca Ronconi nel 1997 (caratterizzato da strutture sghembe quasi astratte) e da Luc Bondy nel 2012 (una coproduzione con il Metropolitan e l’Opera Nazionale Bavarese di Monaco) che venne fischiata a New York e non causò grandi entusiasmi a Milano.
Questa produzione – regia: Davide Livermore; scene: Giò Forma; costumi: Gianluca Falaschi; luci: Antonio Castro; proiezioni: D Work – è al tempo stesso tradizionale ed innovativa. È tradizionale perché nella sua grandiosità si riallaccia a quella famosa di Franco Zeffirelli per il Metropolitan (vista, peraltro, anche in molti alti teatri). È innovativa perché utilizza tutto il macchinario scenico e tecnologico della Scala per dare all’azione un taglio ed un passo cinematografico. È piaciuta molto al pubblico dell’inaugurazione.
Chailly ha utilizzato la partitura originaria, quella del 14 gennaio 1900, più volte ritoccata dallo stesso Puccini non solo perché era un perfezionista ma perché rivedeva la scrittura, soprattutto quella orchestrale, a seconda degli interpreti e degli esecutori. Solo orecchie molto attente ed esperte possono avvertire le differenze. Un conoscitore le nota nel finale del primo atto, il “Te Deum”.
Chailly, da vero pucciniano, sottolinea il sinfonismo continuo orchestrale in cui una dozzina di temi si intrecciano con grande abilità. L’orchestra della Scala ha fatto meraviglie, specialmente nell’inizio del terzo atto quando l’alba romana è presentata con un gioco stereofonico di campane ad integrazione dell’orchestra.
Molto atteso il debutto di Anna Netrebko in questo ruolo alla Scala. Ha sfoderato una voce vellutata e pastosa e grandi capacità sceniche da vera “diva”; si è meritata un lungo applauso a scena aperta dopo Vissi d’arte. Francesco Meli iniziò la carriera come tenore lirico leggero e da anni interpreta con successo ruoli, soprattutto verdiani, di tenore spinto; il suo Cavaradossi ha un ottimo fraseggio, un buon legato ed acuti chiari e trasparenti; è stato applaudito a scena aperta dopo E lucevan le stelle. Luca Salsi è un perfetto Scarpia sia vocalmente sia scenicamente. Bravi i numerosi interpreti delle parti minori.
Un vero trionfo di pubblico.