Il ministro Speranza ha appena firmato il decreto sulla banca dati nazionale per le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e lo ha annunciato con tono trionfante in un breve post su Facebook. “Con questo atto – ha scritto il ministro – la legge sul bio-testamento approvata dal Parlamento è pienamente operativa e ciascuno di noi ha una libertà di scelta in più”.
A parte la singolarità del canale di informazione scelto, ormai abituale tra ministri, che si illudono così di essere in linea con una società 4.0, le cose non stanno propriamente così e la libertà di scelta del malato non è aumentata di un solo millimetro. È il ministro che forse si sente più libero, solo perché si è liberato di quei filtri intermedi con cui in genere la prudenza valuta l’impatto che una notizia può avere sull’opinione pubblica e controlla che risponda davvero ai fatti di cui si sta parlando.
Ma questa volta i malati non sono e non si sentono affatto più liberi; non basta un decreto che istituisce una banca dati per rendere più ampio e più reale il ventaglio delle opzioni a cui ispirarsi prima di decidere una cosa o l’altra. Il ministro Speranza, immergendosi in una sorta di democrazia diretta di stampo grillino, veloce e fortemente impattante, non ha tenuto conto che sulla legge 219/17 si era nel frattempo innestata la sentenza della Corte costituzionale, che per depenalizzare il suicidio assistito ha reso vincolanti le cure palliative.
Secondo il ministro Speranza la legge approvata dal Parlamento è diventata pienamente operativa per il solo fatto di aver istituito la banca dati nazionale sulle Dat, e il poter disporre dell’archivio dei dati delle Dat diventa condizione necessaria e sufficiente per riconoscere a tutti i cittadini maggiore libertà di scelta. Ma, vale la pena ribadirlo, le cose non stanno affatto così.
Il ministro dimentica che i pazienti avranno maggiore libertà di scelta solo quando avranno a disposizione alternative concrete a una tipologia di scelta che nei fatti anticipa la loro morte, secondo una prassi che ormai è lecito definire come un vero e proprio suicidio medicalmente assistito. Lo ha recentemente affermato la sentenza della Corte costituzionale sulla vicenda Cappato, in cui, dopo aver dichiarato l’incostituzionalità di gran parte dell’articolo 580 del codice penale, ha sottolineato l’urgente necessità di attivare cure palliative per tutti i pazienti. Cosa che oggi non accade, nonostante la sentenza della Corte faccia delle cure palliative un pre-requisito indispensabile anche per esercitare quella libertà di scelta a cui fa riferimento il ministro.
Ridurre la libertà di scelta del paziente alla sospensione delle cure, anche salva-vita, compresa la nutrizione e l’idratazione, senza tener conto della volontà di vivere espressa da moltissime altre persone, è un approccio ideologico, e decisamente parziale. Senza cure palliative non c’è alcuna libertà di scelta; le cure palliative oggi vanno considerate come un diritto di rango costituzionale, di cui però il ministro Speranza non tiene alcun conto. Per garantire l’applicazione della legge 219, si è limitato a prendere in considerazione solo quei punti in cui il malato può rifiutare ogni cura e decidere di morire, magari ricorrendo alla sedazione profonda. Non ha assolutamente tenuto conto che dopo la sentenza della Corte la parte fondamentale della legge resta il passaggio che rende obbligatorio il ricorso alle palliative.
A questa interpretazione si era ispirato Giuseppe Conte, quando nel suo ruolo di premier del nuovo governo M5s-Pd, rispondendo ad un preciso quesito aveva impegnato la sua parola a favore delle cure palliative. Aveva detto un sì chiaro e forte, fortunatamente registrato negli atti parlamentari, alla diffusione e alla valorizzazione delle cure palliative, come difesa della vita e prevenzione del suicidio assistito. Peccato che poi non ne abbia fatto nulla e nella legge di bilancio non si parli di cure palliative e gli emendamenti in tal senso siano stati tutti bocciati.
Risulta perciò assolutamente contraddittorio che il ministro Speranza parli di libertà di scelta in mancanza di vere alternative di scelta offerte ai pazienti; il registro di per sé non basta certamente a rendere più liberi. Con una legge di bilancio sorda e muta davanti ai bisogni di coloro che necessitano di cure palliative, è ipocrita parlare di maggiore libertà per malati che non hanno altre alternative se non la tentazione di farla finita, non solo per la gravità delle condizioni fisiche in cui versano, ma anche per l’indifferenza di un sistema che li tratta come malati di serie B, malati per cui le risorse non ci sono mai.
Ma noi insisteremo perché prima o poi questi fondi ci siano e siano adeguati alle necessità emergenti, perché solo allora si potrà parlare i libertà e di maggiore possibilità di scelta.