Ogni volta che si va in udienza nel processo Schwazer ci sono tre certezze. La prima è che l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) depositerà le sue carte in extremis, fuori dai tempi di anticipo previsti dal Codice di procedura, di modo che non possa esserci contraddittorio rispetto a quel che presenta. La seconda è che la documentazione sarà incompleta, tipico atteggiamento, anche questo, di chi è abituato a giudicare e non a essere giudicato, ma pure di chi improvvisa la sua linea difensiva (e non ci riferiamo all’avvocato d’aula ma a chi sta sopra di lui). La terza certezza è che la loro documentazione sarà un boomerang.
E stavolta sono stati addirittura due. Per l’analisi del primo rimandiamo all’articolo specifico pubblicato oggi, insieme a questo. Il secondo boomerang ha avuto come oggetto la risposta alla richiesta di collaborazione da parte del giudice, che nell’ultima ordinanza chiedeva di fornire aliquote di provette di una cinquantina di atleti risultati positivi al testosterone sintetico per confrontarle con quelle di Schwazer.
Il No di World Athletics (nuovo nome della Iaaf) e Wada è stato motivato da una parte con ragioni giuridiche e di privacy, con Gip e perito a controbattere che anonimato e consenso informato degli atleti avrebbero reso la cosa compatibile con le norme giuridiche; per altro canto il rifiuto è stata rafforzato con argomentazioni pratiche: “ne abbiamo meno di 5 di provette positive al testosterone”, una frase che ha fatto sobbalzare la difesa legale del marciatore: “Ma se nel Report Wada del solo 2016 vi siete vantati di averne scovati 169! E siete pure tenuti a conservarle per 10 anni!”.
Detto fra di noi – dopo tutto il rosario di irregolarità attribuite da giudice e perito alla Federazione internazionale di atletica, alla Wada e al laboratorio di Colonia – meglio così! Chi si fidava a far passare da quelle mani provette e aliquote? Avanti allora con gli atleti volontari reclutati dalla Fidal e udienza finale fissata per il 22 luglio, due giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi.