Le elezioni presidenziali che si sono svolte, giovedì 12 dicembre, in Algeria hanno sancito la definitiva separazione tra paese legale e paese reale. Quest’ultimo, incarnato dalla stragrande maggioranza della popolazione in protesta da febbraio, ha tenuto fede alla parola data, disertando in massa le urne.
Secondo i dati ufficiali, i votanti sarebbero infatti stati poco più del 30% degli aventi diritto. Si tratta di quegli algerini tuttora legati al vecchio regime, a cui appartengono tutti i candidati ammessi a partecipare alle elezioni.
Ma il paese reale lo ha ribadito chiaramente: basta con i figli e i figliocci di Bouteflika, che hanno dilapidato la ricchezza dell’Algeria a danno del bene comune; occorre un cambiamento radicale della classe dirigente, è questo l’obiettivo della rivoluzione.
L’intransigenza dei dimostranti aveva già costretto il primo ministro ad interim, Noureddine Bedoui, organico al sistema di corruzione guidato da Bouteflika, a rinviare le elezioni presidenziali previste all’inizio dello scorso luglio per mancanza di candidati.
A cinque mesi di distanza, malgrado fosse consapevole della contrarietà della protesta, Bedoui ha deciso di forzare la mano, imponendo la candidatura di figure già implicate con Bouteflika, in accordo con l’unico vero uomo forte rimasto sulla scena politica algerina: il generale Ahmed Gaed Salah, comandante dell’esercito.
Il “no” della società civile, guidata da giovani e studenti, a questo tentativo di salvare il vecchio regime si è fatto allora ancor più forte e determinato. Le contestazioni e gli scioperi in tutto il paese non si sono attenuati neppure di fronte alla richiesta di condanna a 20 anni di carcere per alcune figure vicine a Bouteflika, tra cui due ex primi ministri, giunta due giorni prima delle elezioni.
L’arresto e la messa in stato d’accusa di uomini politici e d’affari, finora 19, non hanno tratto in inganno la protesta: dietro la cortina di fumo della campagna anti-corruzione si cela infatti l’utilizzo della leva giudiziaria per procedere a un repulisti di personaggi scomodi, soprattutto per il generale Saleh. La protesta non si è fermata neppure di fronte alla rivendicazione, più volte avanzata dal capo dell’esercito, della necessità di eleggere un nuovo presidente per rispettare la legalità costituzionale.
D’altro canto, lo stesso Saleh non ha indietreggiato sull’organizzazione delle elezioni, sfidando apertamente l’opposizione popolare. I sondaggi conferiscono una netta vittoria all’ex primo ministro, Abdelmadjid Tebboune, con il 51% delle preferenze. Tebboune è seguito dall’ex ministro del Turismo, Abdelkader Bengrine (19%), da un altro ex primo ministro, Ali Benflis (15%), e dall’ex ministro della Cultura, Azzedine Mihoubi (10%). All’ultimo posto si è posizionato Abdelaziz Belaid (5%), un fuoriuscito dal Fronte di Liberazione Nazionale, che pur avendo sfidato Bouteflika alle elezioni presidenziali del 2014, resta pur sempre un esponente dell’establishment inviso alla protesta.
Per ufficializzare i risultati bisogna attendere che lo spoglio delle schede venga completato. In ogni caso, l’alto tasso di astensionismo, abbondantemente annunciato, priva già di legittimità democratica la vittoria di qualunque candidato. Mentre gli scontri e gli arresti che hanno caratterizzato la giornata elettorale sembrano preludere a un’escalation dello scontro in atto tra paese legale e paese reale.
Gli algerini sono così entrati in una nuova fase della loro lotta contro il gattopardismo del vecchio regime oligarchico-militare, che intende cambiare per non cambiare nulla. Molto probabilmente li attendono coercizione e repressione: gli unici strumenti attraverso cui gli eredi di Bouteflika possono continuare a conservare il potere contro la volontà di cambiamento pacificamente espressa dalla protesta che unisce i due terzi della popolazione, come dimostrato dal fallimento di queste elezioni presidenziali.