Archiviata la legge di Bilancio, accantonati i temi più spinosi del Fondo salva-Stati e della prescrizione, il nuovo ostacolo che sta di fronte alla maggioranza di governo ha le sembianze di un’enorme doppia gabbia. E il Pd rischia di rimanerci bloccato all’interno. Per questo motivo Nicola Zingaretti ha convocato ieri una riunione urgente della direzione.
Il tema sul tavolo è la nuova legge elettorale e non è proprio facilissimo – come qualcuno vuol far credere – trovare un’intesa che accontenti tutti. Come già è successo in altre recenti occasioni, il Pd è stato il primo a fare il fatidico passo indietro, rinunciando in partenza ad ogni velleità di discutere di doppio turno. Il punto che mette tutti d’accordo è la necessità di liberarsi al più presto del Rosatellum, considerato – a ragione – il peggiore dei mali. Va detto, ad onor del vero, che quando fu votato il Rosatellum appena due anni fa, molti autorevoli esponenti del Pd che oggi ne invocano la fine lo descrissero come il minore dei mali, necessario per liberasi dalla legge elettorale precedente. È così che andiamo avanti da circa venti anni, senza trovare pace, passando da una legge elettorale all’altra, facendo credere agli italiani che basti adottare un nuovo sistema di voto per risolvere i cronici problemi di governabilità del Paese.
In generale le leggi elettorali sono decise insieme da maggioranza e opposizioni. Dovrebbe valere il principio che le regole del gioco vanno sempre condivise, salvo poi sfidarsi a viso aperto e che “vinca il migliore”. Sappiamo che in realtà le cose non stanno mai così e lo spirito che guida le maggioranze pro-tempore in Parlamento è quello di trovare il modo di garantire se stesse, soprattutto se è probabile, come nel nostro caso, la vittoria dell’avversario.
Alla fine di questa lunga e rovinosa vicenda la politica italiana – quasi all’unanimità – è tornata a rivalutare il vecchio sistema proporzionale. Praticamente siamo tornati al punto di partenza, senza neanche passare dal “Via” e ritirare le fatidiche 20mila lire. Così dopo circa 30 anni e infiniti tentativi di trasformare la nostra democrazia in senso maggioritario, dobbiamo prendere atto del fallimento, tornare sui nostri passi e ammettere che non riusciamo a fare a meno della comoda e rassicurante democrazia consociativa, quella che ha dominato nel nostro paese dal dopoguerra fino al ’93. Alla luce di quanto si è visto dopo, rimane comunque il periodo più ricco e positivo della storia unitaria del nostro paese.
Gli ultimi a piegarsi a tale destino sono stati i sostenitori del maggioritario in Italia, e cioè la sinistra democratica. Per questo motivo non potrà essere archiviata come una direzione di routine quella tenuta ieri dal Pd. La svolta, per quanto sia maturata senza clamore, è di quelle storiche: archiviare per sempre il disegno di una democrazia bipolare, rinunciare all’obiettivo di dare ai cittadini la possibilità di scegliere con il voto chi deve governare, dare a chi vince la possibilità di governare senza condizionamenti.
Ironia della sorte, la decisione è stata presa nello stesso giorno in cui la Gran Bretagna ha scelto il suo governo con un voto chiaro e che certo non lascia spazio a interpretazioni.
La direzione del Pd ha dato mandato alla sua delegazione di lavorare per raggiungere rapidamente un accordo. In particolare la discussione ora verte su quale dev’essere la misura della correzione che in teoria dovrebbe dare al sistema maggiore stabilità. Una soglia di sbarramento al 5% a livello nazionale o un sistema più articolato territorialmente in modo da premiare le forze politiche più radicate in aree del paese.
Appena la legge verrà approvata e sarà così garantito ad ogni partito la sopravvivenza, è presumibile che torneremo rapidamente al voto. Forse già in primavera. Una legge proporzionale dà sufficienti garanzie a che la vittoria di Salvini non si trasformi in una Caporetto. E votare in primavera anticiperebbe il taglio dei parlamentari, grazie alle firme raccolte tra i senatori per chiedere il referendum.
In questo scenario Renzi ha iniziato la sua personale battaglia contro lo strapotere della magistratura. Come egli stesso ha avuto modo di evocare, è una strada su cui altri leader in passato hanno dato battaglia, Craxi e Berlusconi in particolare.
Renzi non mollerà facilmente l’argomento. Intanto perché lo ritiene un terreno fertile su cui far crescere il suo nuovo partito, su cui chiamare a raccolta le forze del centrodestra orfane della leadership moderata del cavaliere e quei pezzetti di riformismo di centrosinistra sempre più lontani dal nuovo corso zingarettiano. Quanto valga elettoralmente questa strategia nessuno è in grado di dirlo oggi, ma sicuramente è uno spazio politico importante e al momento totalmente “libero”.
Ma Renzi non potrà abbandonare l’argomento anche perché sarà costretto ad occuparsene dallo sviluppo delle indagini sulla Fondazione Open. Continuano ad emergere nuove rivelazioni sugli intrecci tra gli sponsor economici del gruppo fiorentino e le azioni svolte a sostegno dei loro interessi mentre molto di essi erano a Palazzo Chigi.
Diciamo le cose come stanno: se le stesse cose fossero contestate ad uno sconosciuto sindaco di uno sperduto comune del Sud, a quest’ora sarebbero stati già tutti arrestati, gli imprenditori, i consulenti e lo stesso sindaco.
Quello che appare davvero imperdonabile è la leggerezza assoluta con cui persone con incarichi importanti e con responsabilità di primo piano hanno gestito dossier così delicati. Pensavano forse di godere di assoluta impunità o – cosa più grave – tutto ciò è espressione di una incompetenza assoluta? E fino a che punto il “tema giustizia” minerà le basi su cui è costruita la maggioranza giallo-rossa? In fin dei conti l’attuale governo è nato per volontà di Renzi e non dovrebbe meravigliare nessuno se dovesse cadere proprio per mano della stessa persona.