Sconvolti dalla vittoria travolgente di Boris Johnson nelle 57esime elezioni democratiche tenutesi in Gran Bretagna senza interruzione dall’inizio dell’800, moltissimi commentatori – a Londra e non solo – hanno affannosamente gettato fra le gambe del premier la questione scozzese. La buona affermazione dello Scottish National Party, giovedì, sembra in effetti ridare linfa alle istanze separatiste di Edimburgo: con la possibile richiesta di un secondo referendum, dopo quello che nel 2014 ha visto vincere il Remain.
Una prima domanda è comunque immediata: perché un leader che ha riportato uno schiacciante successo elettorale grazie alla parola d’ordine Get Brexit Done dovrebbe sentirsi pericolosamente sfidato da un nuovo tentativo di devolution scozzese?
Gli elettori britannici hanno appena dato mandato a Johnson di staccare la Gran Bretagna dall’Unione Europea rinegoziando singoli accordi commerciali e militari: perché uno sviluppo analogo – di tipo federale – non potrebbe interessare Edimburgo? (E nel farlo – ormai da fuori Ue – Londra potrebbe perfino riproporre l’opzione federalista in Europa o addirittura all’interno di singoli Paesi membri: prima fra tutte la Spagna alle prese con il caso Catalogna).
Può sembrare solo folklore ricordare che la Scozia – come Galles e Irlanda del Nord – partecipa da sempre con una sua nazionale alle grandi competizioni internazionali di calcio o di rugby. Ma è un fatto: esattamente come l’appartenenza relativamente recente della Scozia al Regno Unito. Che data soltanto dal 1707 ed è divenuta effettiva solo dopo lunghe e sanguinose guerre civili, proseguite ben oltre l’annessione politica.
Nel 2014 per il Remain scozzese si espresse – con rara e circonvoluta moral suasion – anche la Regina Elisabetta: che ha la sua residenza estiva a Balmoral, ma resta una monarca discendente da una dinastia dell’Europa continentale sassone (Windsor è un titolo inventato per opportunità solo nel 1917 quando la Gran Bretagna si ritrovò nella Grande Guerra contro la Germania). E sarà pur vero che l’ultima invasione delle isole britanniche data 1066, ma la loro geografia politica è tutt’altro che scolpita su pietra millenaria.
L’Irlanda è “Stato libero” – poi pienamente indipendente – da meno di un secolo e gli accordi del Venerdì Santo che hanno posto fine alla lunga guerra civile di Belfast hanno poco più di vent’anni. E dopo il referendum Brexit il cosiddetto backstop fra Eire e Ulster è diventato presto un boomerang per Theresa May che ha continuato ad agitarlo invano sia Comuni che a Bruxelles al fine concreto di rinviare la exit. Oggi – anche se il solo ipotizzarlo può apparire massimamente “scorretto” – il confine bollente interno all’Irlanda rischia di scottare sia fra le mani degli unionisti nord-irlandesi che in quelle del premier britannico.
Nel diritto pacta sunt servanda, ma nella storia politica e soprattutto geopolitica non lo sono mai in eterno: vanno infatti a dare temporaneo consolidamento a situazioni perennemente mutevoli. La dissoluzione stessa dell’impero britannico nel Commonwealth è un grande caso di studio tuttora in corso (non meno della lunga finis del più recente e meno duraturo “impero” sovietico). All’interno di questo processo Londra ha atteso 16 anni prima di aderire ai Trattati di Roma e 43 anni dopo ha deciso di abbandonare anticipatamente l’Europa di Maastricht.
Hong Kong è stata colonia di Londra per 150 anni, prima di essere restituita alla “madrepatria” cinese 22 anni fa (e ora una Pechino molto diversa da quella del 1998 preme per l’annessione, peraltro tutt’altro che certa). A Singapore è stato invece riservato, fin dal 1965, il destino di città-Stato: modello di hub tecno-finanziario offshore nella globalità. È formalmente una repubblica parlamentare ma nei fatti ha più di un connotato di “democratura”. È popolata di oltre 5 milioni di “apolidi” appartenenti ad oltre 60 etnie: ed è questo format cui sembra già guardare la Great London.
Non diversamente da Milano in Lombardia, la capitale britannica è da ieri la più importante traccia rosso-Labour in un’Inghilterra divenuta intorno quasi completamente blu-Tory. Non differentemente dal milanese Matteo Salvini, anche “BoJo” è oggi straniero in casa nella capitale di cui pure è stato lord mayor. Su quella poltrona siede oggi Sadiq Khan, che l’ha strappata ai Tory un mese prima del voto su Brexit. Sadiq è nato a Londra ma ha origine pachistane: è il primo sindaco musulmano di una metropoli europea; è un avvocato specializzato nella tutela contro gli abusi dei datori di lavoro e delle forze dell’ordine, si è espresso a favore dei matrimoni fra persone dello stesso sesso. È stato lui a prospettare apertamente uno “statuto speciale” per Londra, quando la campagna elettorale era già aperta. E non appare affatto inverosimile che quando il Financial Times – portavoce della City – fa subito scoppiare petardi fumogeni sul caso scozzese stia iniziando una rapida campagna per “Londexit” dal nuovo “Johnson Kingdom”.
Ma anche altrove nel mondo la politica preme sui confini geografici e pacta firmati nel secolo scorso. Un caso non marginale è in pieno progress entro i confini italiani: nell’attuale Provincia autonoma di Bolzano, che ha una storia recente molto complessa. Il Tirolo del Sud, parte dell’impero asburgico anche se storicamente attraversato da spinte autonomiste, viene ricompreso nei confini del Regno d’Italia dal trattato di Versailles del 1919 (in disapplicazione dei 14 punti-guida stilati dal presidente americano Wilson con il fine di ricomporre in Europa una carta geografica stabile). Dopo un ventennio di italianizzazione forzata (con la nascita dell’Alto Adige) durante la seconda guerra mondiale i sudtirolesi sono posti dagli occupanti nazisti di fronte a un aut aut: o diventare definitivamente sudditi italiani o trasferirsi in Germania. Nel 1946 l’Italia repubblicana di Alcide De Gasperi e l’Austria denazificata del tirolese Karl Gruber raggiungono un accordo che pone come obiettivo una larga autonomia a Bolzano. La Provincia autonoma nasce effettivamente solo nel 1972 (non prima di una stagione di attentati da parte dell’estremismo separatista) e risulta infine largamente favorita sul piano finanziario. Quasi cinquant’anni dopo, tuttavia, la geografia etnico-politica riemerge prepotente.
A riporre la questione è stata la confinante Austria del cancelliere Sebastian Kurz, alla guida di una coalizione di destra-centro, con venature sovraniste. Kurz, dopo aver schierato mezzi corazzati al Brennero per impedire l’afflusso di migranti africani sbarcati in Italia, ha chiesto all’Italia di valutare l’attribuzione di un doppio passaporto ai sudtirolesi di etnia austro-tedesca. Il mandato a negoziare con Roma è stato formalmente confermato dal Parlamento di Vienna lo scorso settembre. Nel frattempo, a Bolzano è stata appena approvata una legge controversa: che formalmente sembra prospettare l’abolizione del toponimo “Alto Adige” (peraltro citato nella Costituzione italiana), anche se nei fatti interesserebbe per ora solo la rappresentanza della Provincia presso la Ue. Svolta, peraltro, niente affatto banale mentre la governance europea è entrata in fase costituente. Per la cronaca, le forze politiche non etniche in consiglio provinciale a Bolzano (Pd, Lega, Verdi e Team Koellensperger) si sono astenute, senza quindi opporsi. Ha votato no solo Fratelli d’Italia.
Certamente più aggrovigliata, spigolosa e geopoliticamente rilevante rimane la questione dei Territori palestinesi: il cui status tendenziale rimane formalmente fissato da una risoluzione Onu del 1967 (al termine della guerra dei sei giorni), confermata nel 1973 dopo la guerra del Kippur. Il dispositivo – fin dal primo giorno dibattuto sul piano linguistico-diplomatico – impegna com’è noto Israele a ritirarsi dalla cosiddetta West Bank, il territorio fra il confine dello Stato nato nel 1948 e il fiume Giordano. La mancata attuazione effettiva, il radicamento progressivo di coloni ebrei e il destino delle popolazioni palestinesi hanno via via costruito il dossier geopolitico contemporaneo più vecchio e complesso: apparentemente irresolubile, nonostante passaggi epocali come il summit di Camp David del 2000. Ma proprio nelle ultime settimane il dossier è stato riaperto: in modo brusco e accelerato.
A metà novembre gli Stati Uniti hanno dichiarato di non considerare più “illegali” gli insediamenti dei coloni ebrei nei Territori. Già nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump aveva riconosciuto come capitale d’Israele Gerusalemme (il cui status è invece dibattuto sia per l’appartenenza della zona Est ai Territori, sia per i peculiari profili religiosi della città). I due passi – soprattutto quello più recente – sono parsi segnalare il netto appoggio del presidente Donald Trump al premier Bibi Netanyahu: in carica da un decennio a capo di una coalizione connotata da un crescente nazionalismo religioso. Il premier è tuttora al suo posto dopo due tornate elettorali a vuoto nel 2019 (una terza è ora in programma per il marzo 2020) e nonostante una fresca incriminazione per sospetti fatti di frode e corruzione. Questo non ha impedito a Netanyahu – incontrando dieci giorni fa il segretario di Stato Mike Pompeo – di affermare il “pieno diritto di Israele di annettere la valle del Giordano”. “Bibi” aveva acconsentito – inizialmente – alla formazione di un governo di coalizione nazionale con il partito laico-socialista “Blu e Bianco” guidato dal generale Benny Gantz, ma a condizione di essere il primo nella rotazione della premiership. Ora sarà certamente del Likud fino al 26 dicembre, quando il principale partito di centrodestra israeliano terrà le sue primarie in vista del nuovo voto anticipato. Ma non è ancora certo che Netanyahu cadrà per mano dei suoi compagni di partito, che potrebbero negargli la ricandidatura. E resta impredicibile anche la sua permanenza in carica come premier in prorogatio fino alla formazione di un nuovo esecutivo, dopo il voto di marzo. A spingerlo alle dimissioni, in teoria, potrebbe essere solo un’escalation giudiziaria. Ma Netanyahu ha già misconosciuto con parole inusualmente violente per l’unica democrazia del Medio Oriente (“Un golpe della sinistra”) l’impeachement deciso dal general attorney israeliano Avichai Mandelblit. Sembrano esserci quindi pochi dubbi che il premier dello Stato della nazione ebraica (così si è ridefinito Israele attraverso una recente riforma costituzionale) si senta in full charge per forzare la chiusura della lunga partita dei Territori. E riportare definitivamente al centro dell’agenda globale la questione del ridisegno continuo della mappa geopolitica.