No, non fa piangere, come troppi melensi film americani, commedie o tragedie che siano. Fa pensare. Ed è la miglior cosa mai fatta o scritta o detta contro il divorzio. Storia di un matrimonio ha una partenza lenta, e ti chiedi cosa mai potrà accadere, tra i due protagonisti, che hanno tutte le caratteristiche per piacerti: belli, neanche dannati, tutt’altro, gentili, appassionati, desiderosi di essere padre e madre, artisti ed eccentrici quel che basta per non essere noiosamente borghesi. Lei poi ha una mamma e una sorella quasi comiche, che adorano lui, e lo accolgono in una famiglia calorosa.
Eppure, qualcosa manca, e non sai che cosa, mai, fino alla fine. Puoi intuirlo, disattenzioni di lui, troppo preso dal suo lavoro, ambizioni e frustrazioni di lei, che deve rinunciare a qualche salto di carriera, ma tutto sommato, nulla di drammatico, nulla per cui valga la pena interrompere la storia di un amore, scelto, custodito, che ha regalato non solo fotografie, ma la felicità.
Quando finisce un amore? Quando non ti senti capito? Quando non riesci più a parlare, a comunicare i tuoi desideri, e a essere capito nei tuoi desideri? O finisce l’innamoramento, e il problema sei tu, a non sapere quel che vuoi, quel che davvero può darti la pienezza del vivere, con tutte le rinunce possibili. Una superba Scarlett Johansson, solo donna, mai diva, e un commovente Adam Driver finiscono per allontanarsi, rassegnandosi a lasciarsi andare, soffrendo, provando rimorso, ma cedendo alle logiche più usate.
Avvocati di grido, i migliori, e i più squali: lei assume una virago scatenata di successi a vendetta di amori mancati, lui un volgare quanto pratico sibilatore di cattiverie per finire in tribunale, e mettere a tema i soldi, quando ai due sposi interessava una cosa sola, continuare entrambi a voler bene e educare il loro bambino. È più facile distruggere che mettere insieme i cocci e farne un capolavoro, come nei vasi giapponesi più preziosi. In una deprimente successione di visite di assistenti sociali psicotiche, di carte bollate, di tira e molla con il figlio amato e conteso, il divorzio arriva.
Lei soffre anche se dice con un sorriso tirato che adesso va finalmente alla grande (le ronza pure attorno un tipo ganzo), lui affranto arde dal bisogno di lei, che sola può compiere la sua sete di amore e di vita. Lo canta, davanti agli amici, in una serenata struggente che cade nel vuoto, perché lei non c’è più, non può ascoltare. Ma c’è il bambino: Harry è così capriccioso e triste, così dispettoso e triste, così piagnucoloso e triste, così incredulo e incapace di capire, ed è tutti i bambini del mondo, costretti a diventare merce di scambio per genitori immaturi e fragili.
Il film si chiude con il papà che scopre il figlio leggere uno scritto segreto della mamma, al suo amore. Dove dichiara tutto il bene e il bello che vede in lui. Non si rimettono insieme, ma si può sperare che il cinismo del mondo non soffochi questa scintilla di verità, che li fa piangere, e mostrare tenerezza l’un verso l’altra.
Strano che da Hollywood arrivi un film così. Sei nomination ai Golden Globes, strada spianata per gli Oscar: che non penso arriveranno, perché se si vuol capire, e non tocca essere troppo introspettivi, il film è un inno all’amore matrimoniale, uno schiaffo al pensiero comune per cui divorziare è meglio che tirare avanti, i figli non patiscono, devi rifarti una vita eccetera. Onore al coraggio di Noah Baumbach, regista, sceneggiatore, attore. Scorro le recensioni italiane: tutti concordi a parlare di capolavoro, qualcuno si spinge a definirlo “devastante”. E poi? Il giudizio qual è? Che il divorzio comunque è un diritto. Così recitano da bravi gli attori. Le domande vere, che pungono e scarnificano il cuore, e devastano avvero, si spera che se le faccia qualche spettatore.